Resistere non serve a nulla. Mario Draghi non vuole essere complice di questo non senso. La parola dimissioni gli rimbalza in testa da giorni. Non è stanchezza. È la consapevolezza che qualsiasi passo sia ormai inutile. Lo ha detto anche a Mattarella. Perché? Fino a che punto si può andare avanti? Il presidente non può però accettare queste dimissioni senza provare un altro giro di giostra. Non è solo testardaggine. È per dare l'impressione che l'Italia non è ancora alla deriva. È il tentativo di tenere buoni gli alleati occidentali. È per non sbracare sotto il caldo di luglio. È per non avere rimorsi. L'ultima parola spetta al Parlamento, dove però da tempo si naviga a vista e non c'è mai stata una maggioranza politica reale, ma solo gruppi sparsi di deputati o senatori che si arrangiavano a sopravvivere. Draghi ha cercato di immaginare un futuro camminando controvento. Ci ha messo la sua faccia, spendendo credibilità e autorevolezza, ma alla fine ha dovuto fare i conti con la realtà. Tra i partiti che lo sostenevano c'era chi non ha mai giocato per lui. A svelare le cose è apparso il dl Aiuti. Conte lì si è sfilato, Draghi ha messo la fiducia, tecnicamente l'ha avuta, ma di fatto ha preso atto che il tempo della finzione era finito. Non è una questione di numeri, ma di senso politico. È venuto meno il patto di fiducia. Draghi non vuole avere più nulla a che fare con un personaggio di cui non riconosce il volto. Quale è il gioco di Conte? Questa è la domanda a cui il presidente del Consiglio non sa dare risposta.
A questo punto il governo si avvia verso una più o meno rapida agonia e tutto il resto conta fino a un certo punto. La legislatura nata sotto il segno dei Cinque Stelle non ha trovato un finale migliore. È un tramonto irresponsabile, meschino, piccolo e micragnoso, che finisce per tradire le ultime speranze che erano rimaste. Il fallimento del movimento politico che avrebbe dovuto pulire l'Italia dalle sue scorie ha contagiato ogni cosa, mandando in frantumi perfino il piano europeo di ripresa e resilienza, parola che a sentirla adesso fa ancora più ridere. Non c'è alcuna saggezza nella scelta di Giuseppe Conte di rinnegare la fiducia a Draghi. È, nel migliore dei casi, solo il calcolo di una forza politica che si sfila dalla maggioranza per cercare di intercettare la rabbia viscerale d'autunno. È soprattutto un'offesa verso gli elettori. È la finzione di chi ti racconta che in questi anni è vissuto sulla luna e spera che gli altri ci credano. Conte, per due volte presidente del Consiglio, ora scende dal Palazzo e con il suo vestito da avvocato d'affari s'improvvisa capo dei disperati. Assurdo. È meglio pensare peggio e male, magari sta giocando una partita più alta e lontana, pagando una cambiale a chi sogna di scarnificare le democrazie europee. Di certo l'avventura di Casaleggio padre, con le sue contraddizioni e le sue utopie, meritava un finale più nobile. Conte appassisce tutto quello che tocca: i governi, i partiti, l'Italia.
Lo fa dissimulando una mitezza che non gli appartiene. La parola ora tocca al Parlamento e non sarà facile trovare una voce coerente. Lo stesso Draghi, nonostante tutto, potrebbe riprovarci. A Conte toccherà invece gettare la maschera. O mostrare il vuoto.
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