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Se il capitano Matteo cerca di salvare il soldato Di Maio

Se il capitano Matteo cerca di salvare il soldato Di Maio

La sensazione è generale ed è diffusa in tutti i Palazzi della politica: anche nei momenti di maggiore tensione Matteo Salvini tenta di preservare il personaggio con cui ha stipulato l'alleanza di governo, cioè Giggino Di Maio. Un atteggiamento ricorrente che corrisponde non tanto a un sentimento di lealtà verso il leader grillino, quanto a una gestione oculata dei propri interessi. «Anch'io se fossi Salvini - confida in mezzo al Transatlantico di Montecitorio, il Guardasigilli Alfonso Bonafede - salvaguarderei Di Maio per evitare che il movimento assumesse posizioni ostili con la Lega. Ecco perché non vedo una crisi di governo alle porte». Il ragionamento del ministro echeggia pure nelle parole che il suo sottosegretario, il leghista Jacopo Morrone, ripete spesso agli amici più fidati. «Matteo - spiega - deve assecondare per quel che può Di Maio, per evitare che personaggi come Fico o Di Battista scalino il vertice grillino portando i 5stelle verso il Pd». Si cambia scenario, si entra dentro Palazzo Madama e quella sensazione non sparisce. Anzi. «Io - osserva sicuro il sottosegretario Vito Crimi - non sento puzza di crisi perché Salvini ha tutto l'interesse a garantire Luigi. Tutto il resto è gossip». Per cui alla fine, come sempre avviene, è fatale che una voce di popolo coni di per sé un'immagine efficace e sarcastica. «Salvini - ironizza l'azzurro Roberto Occhiuto - si comporta con Di Maio, più o meno come il Wwf con il panda: lo protegge».

Già, l'immagine di un Salvini nei panni di un'attivista del World wide fund for nature che protegge un orsacchiotto bianco e nero con il musetto di Di Maio non è male. E si riscontra anche nei momenti di maggior confusione sotto il cielo del governo. L'altra sera, ad esempio, il leader leghista si è mostrato comprensivo con il vicepremier grillino, messo all'angolo dalla vittoria di Milano e Cortina per le olimpiadi invernali e dal progetto Tav che ha fatto ulteriori passi avanti. Non ha infierito neppure sulle brutte notizie che arrivavano dall'Ilva. Anzi, ha reagito con una certa filosofia alla voglia grillina di tergiversare sull'Autonomia regionale o sulla boutade di privare Atlantia della concessione autostrade: alla fine, al di là dell'obbligo mediatico di dimostrare il proprio disappunto, Salvini ha giudicato queste mosse per quello che sono, cioè ballon d'essai che Di Maio ha dovuto dare in pasto ai «duri» del movimento. «Fa parte del gioco della politica» ammette il viceministro di Di Maio allo sviluppo economico, un leghista della vecchia guardia come Dario Galli, che per mesi ha teorizzato la rottura con i 5stelle. «La verità - spiega - è che andare alla crisi e alle elezioni, significa stressare il Paese per almeno 4 mesi, senza conoscere l'approdo. Tanto più ora che abbiamo dimostrato di essere un governo innovativo, che non torna indietro su Quota 100 o altro; e responsabile, visto che con l'Ue probabilmente raggiungeremo un accordo. Il successo sull'organizzazione delle Olimpiadi invernali a Milano e Cortina, la decisione della Corte di Strasburgo sulla politica di Salvini sugli immigrati, l'aumento del contributo europeo per la Tav, dimostrano che a livello internazionale non siamo poi così isolati...». E tutto questo - anche se l'analisi di Galli a qualcuno può apparire azzardata - stempera la voglia di andare al voto. «Una crisi sull'Autonomia - osserva Andrea Crippa, fresco di nomina a vicesegretario della Lega - non si può fare: rischieremmo di perdere voti al Sud. Né, tantomeno, ci conviene avventurarci in un tragitto che invece delle elezioni potrebbe portarci in dote un governo tecnico».

Appunto, il governo tecnico: più che un rischio reale è lo «spauracchio» che il leader leghista utilizza per argomentare con i suoi la prudenza con cui si approccia al binomio crisi-elezioni. Una diffidenza che nasce anche dalla constatazione che il luogo dove più si parla di urne è il Quirinale. Tutti i più assidui frequentatori del Colle ne sono convinti. «Io - ripeteva ancora ieri Dario Franceschini - ci scommetto su!». E per Salvini sapere che un capo dello Stato, non certo amico, propenda per la strada elettorale, non è certo un buon viatico per imboccarla. Anche perché gli strateghi del Quirinale continuano a coltivare l'idea di staccare i grillini dall'abbraccio con la Lega per dirottarli verso il Pd: un'ipotesi che è sullo sfondo dei movimenti di Fico e Di Battista e per la quale al Colle sono pronti anche a rischiare le urne.

D'altronde la decisione di Mattarella di non sciogliere immediatamente il Csm (criticata sia da Salvini, sia da Berlusconi) conferma questo indirizzo: nell'organo di governo dei magistrati, infatti, con l'arrivo dei sostituti dei dimissionari, si è formata una maggioranza che mette insieme toghe rosse e seguaci di Davigo. Con l'annunciata candidatura alle suppletive per i rappresentanti dei Pm di Nino Di Matteo, in quota Davigo, al Csm l'allegra compagnia «giustizialista» si ritroverà presto al gran completo. Tutti segnali che consigliano al leader della Lega cautela. Senza contare che un generale che deve combattere la madre di tutte le battaglie, normalmente sceglie un terreno propizio: una campagna elettorale estiva oltre a essere un'incognita (in Italia è dal 1913 che non si vota in autunno) è quantomeno avventurosa (con pochi scambi di titoli sui mercati un sovranista è alla mercé di qualsiasi speculatore europeista). E, come minimo, cerca di assicurarsi delle truppe di riserva: per ora, però, l'accampamento del centrodestra è diviso da gelosie e diffidenze. Tant'è che la stessa Giorgia Meloni, che ha chiuso i cancelli a possibili arrivi da Forza Italia, la prossima settimana incontrerà il vicepremier leghista proprio per sondarlo sul tema.

In questa situazione, quindi, Salvini deve soppesare i «pro» (i sondaggi che vanno gonfie vele) e i «contro». E rispondere al rebus: vale la pena giocare la partita delle elezioni in autunno per sobbarcarsi subito una legge di Bilancio, a dir poco difficile, solo per fregiarsi del titolo di premier, ben sapendo che in questo Paese appena varchi la soglia di Palazzo Chigi comincia il count down dei tanti che puntano a sfrattarti? Oppure, è meglio continuare, fino a quando te lo permettono, a esercitare il ruolo di «premier ombra»? È probabile che in cuor suo il leader leghista abbia già scelto la seconda opzione.

Motivo per cui è pieno di attenzioni e pronto a proteggere a qualsiasi costo, da predatori come Di Battista e Fico, il panda Giggino.

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