Se la lobby rossa della cultura non rappresenta più nessuno

Se la lobby rossa della cultura non rappresenta più nessuno

L' incipit è folgorante, con quelle lunghe code ai cancelli, appesantite da controlli lentissimi. Che sarà un successo - quanti saranno alla fine della settimana: 150mila come l'anno scorso, di più? - si capiva già ieri mattina, primo di cinque affollatissimi giorni di carta e di kermesse, tutti a respirare l'aria buona, quella che sa di inchiostro, di cellulosa, di cellulari, tablet, libri, stand, lectio (magistrale quella di apertura, sull'Europa, di Javier Cercas), reading e presentazioni. Signori lettori, vi presentiamo: la 31ª edizione del Salone del libro di Torino, la prima dopo la pace scoppiata fra Lingotto e grandi editori. Alla fine sono tutti qui: mega-gruppi, piccoli, minuscoli. Quest'anno hanno aperto un mini-padiglione supplementare, là in fondo, per non lasciare fuori nessuno.

E non mancava nessuno, ieri mattina nella Sala gialla, cerimonia d'apertura del Salone, sempre così impeccabile, organizzato, ricchissimo di appuntamenti, sempre così uguale a se stesso mentre tutto fuori cambia. Dentro, ecco i protagonisti della passerella istituzionale. Inizia Massimiliano Bray, presidente del Salone, e sembra una beffa che il ministro del governo più odiato della seconda Repubblica sia il volto della manifestazione più amata d'Italia. Parla, parla, parla... Nel passaggio più provocatorio evoca il Salone come una «narrazione inclusiva, non divisiva». Cita la Fiera del libro di Teheran, appena conclusa, ma tace che là erano esposti persino i libri anti islam della Fallaci, in nome della non divisione. Qui a Torino, programma alla mano, non esiste un evento/presentazione/ospite che non ricada sotto la cupola dell'unica area politica, senza più voti, che continua a governare la cultura. Leggete (provate, vi prego) i cinque Percorsi giornalieri del Salone. Invitati: Mario Calabresi, Carlo Petrini, Zagrebelsky, Littizzetto, Concita De Gregorio, Augias, Floris, Calabresi (ancora), Odifreddi, Vecchioni, Erri De Luca, Andrea Scanzi (?!), Oscar Farinetti, Ilvo Diamanti, Walter Siti, Gramellini, Calabresi (ancora), Travaglio, Laura Morante, Volo, Saviano, Serena Dandini, Michela Murgia, Michele Serra... Qualcosa fra il colophon di Repubblica, i palinsesti di Raitre e la lista degli ospiti di Otto e mezzo. La linea editoriale del network unico del pensiero: Repubblica-Espresso-Feltrinelli, La7. Un giorno, tutto questo farà parlare.

Silenzio, parla Roberto Fico, presidente della Camera a 5 Stelle ma senza cravatta, atto di vera cafoneria. E ben ci sta. Ridevamo delle canottiere di Bossi. La stoffa, sciatta e populista, è la stessa. Viene voglia di alzarsi. Ma lo ascoltiamo: parla di bibliodiversità. Che sarebbe un valore, se vi corrispondesse una pluralità di idee. Il Salone è un'orchestra di cento elementi. Ma suona un'unica nota.

Ecco, sul palco, il direttore: Nicola Lagioia, primus fra dieci amici che formano la squadra dei consulenti. Nomi sinistramente noti: Parrella, Culicchia, Carmignani, Bajani, Lipperini... Il pluralismo declinato sull'asse ideologico Fahrenheit-minimum fax- salotti romani-Einaudi Stile libero. Lagioia riedita in pubblico il discorso pubblicato al mattino in forma semi-privata sulla Stampa. Si loda, e imbroda un po'. Presenta un'edizione stellare del Salone, e ha ragione, ma glissa sul fatto che il liquidatore stia mettendo all'asta il marchio del Salone per provare a ripianare il debito della Fondazione del libro, che ammonta, al netto delle code di visitatori, a qualche milione di euro. Dice che l'appuntamento di Torino è il luogo per un «ragionamento comune» per la cultura italiana, il posto giusto per coloro che hanno «il coraggio del non conformismo».

La realtà è che il Salone, bellissima fiera, anche del conformismo, va sempre accuratamente a sinistra. Che andrebbe benissimo, se - come è stato fino alle passate edizioni dei dioscuri Picchioni-Ferrero - anche il Paese andasse lì. Ma l'Italia, per politica, voti e costume, va un po' a destra, un po' a Nord, un po' a Sud. Nessuno vede più Raitre, la Bignardi ha fallito, Einaudi vendicchia, Fazio non fa neppure più ascolti record, minimum fax è scavalcata da Sur, e quelli che sfogliano Robinson sono meno dei lettori dei giornali di destra messi insieme. Eppure, il Salone, la più grande manifestazione culturale del Paese (e pubblica: non come il festival di Mantova, che coi finanziamenti degli sponsor privati fa quello che meglio crede) vive in una prorogatio eterna di quel ristretto ceto colto, espressione residuale delle professoresse con le scarpe basse e gli alti ideali democratici.

Un gruppo di intellettuali, col lapsus di Pasolini, che non rappresenta più l'Italia, un Paese che è tutto fuorché di sinistra, e che non rappresenta più neppure la sinistra, mai stata così in crisi d'identità. Ma che si (autorap)presenta benissimo. Per il resto, buon Salone a tutti (e da domani, promessa, parliamo solo di libri).

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