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Un segnale e tre discorsi. La resa dei conti di Draghi

Addio, rilancio o programma minimo: il premier aspetta i partiti. E Conte (mollato anche da Grillo) ora ha paura di intestarsi la crisi

Un segnale e tre discorsi. La resa dei conti di Draghi

Per dirla con le parole di un ministro dem, domani alle Camere potrebbe andare in scena il finale di stagione del cosiddetto «romanzo Quirinale». Perché è del tutto evidente che è quello il passaggio politico che, lo scorso gennaio, ha compromesso il rapporto tra Mario Draghi e la sua maggioranza. Allora i partiti scelsero consapevolmente di non eleggerlo alla presidenza della Repubblica e oggi, seguendo esattamente lo stesso schema, non si stracciano le vesti all'idea che l'ex numero uno della Bce lasci. O almeno non tutti, a partire ovviamente da Giuseppe Conte.

Certo, gli appelli al premier a restare alla guida del governo sono stati numerosissimi, quasi un fiume in piena. Dai sindaci ai governatori, da Confindustria ai sindacati, dalla Chiesa all'associazionismo, per non parlare dell'Ue e delle principali cancellerie internazionali (compresa Kiev). Tutti soggetti che, però, non votano la fiducia. Insomma, attestati di stima importanti e che, magari, stanno spingendo a un supplemento di riflessione un Draghi che giovedì era salito al Quirinale con in tasca dimissioni irrevocabili. Ieri il premier era ad Algeri per la firma di diversi accordi commerciali, tra cui quelli sul gas. E, come era ovvio, non ha fatto cenno alcuno alle vicende di casa nostra. I suoi interlocutori, però, sottolineano che il premier continua a vedere soprattutto il bicchiere mezzo vuoto: l'assenza di fatti politici nuovi rispetto a giovedì scorso, un segnale di buona volontà dai partiti della sua maggioranza. Una riflessione che, probabilmente, è rivolta soprattutto al centrodestra. Il Pd e Italia viva, infatti, hanno ripetutamente messo in chiaro che mandare a casa Draghi sarebbe una iattura. Mentre è del tutto evidente che da Conte il premier non si aspetta niente. Resta quindi il fronte Forza Italia-Lega. E in particolare un Matteo Salvini che - pur non dicendolo in chiaro per non restare con il cerino in mano - è sempre più posizionato sull'andare al voto anticipato. D'altra parte, è proprio questo il dilemma che in queste ore sta attanagliando lo stesso Conte: che fine farà il suo profilo istituzionale di ex premier dopo aver affossato l'unico italiano che ha credito verso il mondo delle imprese, i mercati e la comunità internazionale tutta? Un premier che nonostante diciassette mesi a Palazzo Chigi tra pandemia e invasione dell'Ucraina da parte della Russia continua ad aver un gradimento dei sondaggi pari al 50%. La sa bene anche Salvini, che peraltro deve vedersela con un pezzo corposo della Lega preoccupata da un eventuale show down. Nella riunione della scorsa settimana con i governatori, non a caso, alcuni dei presidenti di Regione del Carroccio sono stati piuttosto polemici: «Responsabilità è una parola vuota, qui il punto è che se si va a votare rischiamo di perdere 25 miliardi di Pnrr che sono in buona parte destinati ai nostri territori e pure i fondi per le Olimpiadi di Milano e Cortina del 2026, necessari a completare in tempo le opere per i Giochi».

Conte e Salvini, dunque. Non a caso lo stesso tandem che ha avuto un ruolo centrale nel frenare la corsa di Draghi al Colle. E sempre non a caso - raccontano due big della Lega - quelli che solo due anni fa furono i protagonisti della disfida del Papeete oggi hanno ricominciato a sentirsi con una certa frequenza. E, se per caso le prossime elezioni decretassero un quasi pareggio, sarebbero già d'accordo sul fatto che a Palazzo Chigi ci potrà andare chiunque fuorché Draghi.

È per tutte queste ragioni che l'ex Bce non vede grandi novità. Anche se ieri a tarda sera c'era nel M5s chi faceva notare un Salvini piuttosto silenzioso e una Lega meno tranchant nel porre condizioni. Insomma, un quadro complesso. Tanto che, racconta il ministro dem di cui sopra, al momento sarebbero sul tavolo «tre ipotesi di discorso davanti alle Camere». La prima è quella del «tanti saluti», un discorso duro nel quale rivendicare i successi e attribuire le responsabilità della crisi (non solo a Conte). D'altra parte, il premier è consapevole che ci sarà il tentativo di scaricare su di lui - e sul fatto che ha ancora un'ampia maggioranza - uno show down che nei mesi a venire è destinato ad avere conseguenze nefaste sul Pnrr ma anche su una sessione di bilancio che rischia l'esercizio provvisorio. La seconda ipotesi è quella in cui il premier sottolinea come al momento manchino le condizioni, ma senza escludere che si possano ancora ricreare nel caso in cui i partiti si mostrino disponibili. La terza, invece, è una sorta di ultimatum: un programma di fine legislatura di 4-5 punti (a partire dalla messa in sicurezza di Pnrr e legge di bilancio e magari qualche punto dell'agenda sociale) sul quale chiedere la fiducia. D'altra parte, in caso di crisi lo scenario quasi certo è quello delle elezioni. Fino a novembre, insomma, non ci sarebbe un nuovo esecutivo e Draghi sarebbe con ogni probabilità costretto a restare a Palazzo Chigi per gli affari correnti.

A quel punto, visto che la legislatura finisce a marzo, potrebbe avere un senso rimanerci lo stesso ma con i pieni poteri.

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