Guerra in Ucraina

Il senso dimenticato dell'eroismo

I rintocchi di mezzogiorno non hanno avuto risposta. A Mariupol lo sanno per chi sta suonando la campana

Il senso dimenticato dell'eroismo

I rintocchi di mezzogiorno non hanno avuto risposta. A Mariupol lo sanno per chi sta suonando la campana. Non serve chiederselo. I russi sono stati chiari. «Avete due ore per lasciare la città». Si chiama ultimatum e serve a chi semina morte per lavarsi la coscienza. È come dire: abbiamo dato loro una possibilità. È la vita in cambio della resa. Chi non lo farebbe? E invece niente, silenzio. Tutto questo mentre Putin si atteggia a bullo globale. Prima annuncia e prepara una sfilata celebrativa della vittoria per il 9 maggio, tra le strade morte della città-simbolo distrutta. Poi mette in mostra - come un Kim Jong-un qualunque - il suo «missile impareggiabile». Lo ha battezzato Sarmat e punta il muso verso Occidente. Ma può spaventare gli spettatori dei tg europei, non la gente di Mariupol.

Le macerie sono l'ultimo riparo, ma quel «basta» non arriva. Non lo dicono i soldati ucraini e non lo dice la città. I bus umanitari attraversano a fatica la linea del fronte e si dirigono verso via Taganrogskaya, la fermata della speranza, e poi faranno tappa alle acciaierie Azovstal, per correre poi verso Zaporizhzhia. È la via della sopravvivenza per bambini, donne e anziani. Solo che non è una fuga. Non c'è ressa. Non ci sono code e gli autobus non sono pieni. Si arriva a piccoli gruppi, con il cuore devastato, perché non più in grado di resistere. Chi può invece ha scelto di restare e questo per noi che stiamo qui è qualcosa di indecifrabile, quasi impossibile da comprendere. Non ci appartiene più. È fuori dall'orizzonte delle nostre vite. Davvero qualcuno è disposto a morire per un'idea? Non sai neppure darle un nome. Che roba è? La puoi chiamare patria o libertà, ma non la senti, non la vedi, non la vivi. È troppo astratta. Ma queste per la gente di Mariupol non sono soltanto parole. Non sono chiacchiere da bar o da salotto televisivo. È la realtà. È il dramma della vita e ti costringe a scegliere. È qualcosa di radicale, al di là del qui e adesso. Non vogliono vivere come vuole Putin. Non vogliono svendere il futuro di chi verrà dopo. Non vogliono sottomettersi.

Allora te lo chiedi: tu lo faresti? Forse no, probabilmente no. Non lo sai, perché ti ci devi trovare, ma dire sì sarebbe disonesto. È come giurare adesso che nel '43 saresti andato in montagna. È come prendersi una patente da antifascista sotto gli applausi del 25 Aprile. Chi lo ha fatto davvero avrebbe capito lo sguardo di chi adesso sta a Mariupol. Solo che non ci sono più. Non c'è più nemmeno quel poeta giovane e illuso che nel 1849 andò a combattere sotto il Gianicolo per una vaga idea di Italia. Anche quello era un sogno impossibile. Cosa ti porta a combattere per la Repubblica romana di Mazzini quando di fronte hai l'esercito francese? Nulla che oggi si possa capire. Un proiettile gli frantumò la gamba e dopo quattro giorni, alle sette del mattino, morì di cancrena.

Aveva 21 anni e si chiamava Goffredo Mameli.

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