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Una sfida epocale senza vittimismi

C'è un parallelo, in questi giorni, che può aiutare a capire le dinamiche dei conti pubblici italiani

Una sfida epocale senza vittimismi

C'è un parallelo, in questi giorni, che può aiutare a capire le dinamiche dei conti pubblici italiani. Dicono gli esperti che, dopo oltre tre anni di Covid, siamo arrivati a un passo dalla dichiarazione di fine pandemia. Parimenti, dopo tre anni di letargo, stanno per ripartire le regole di bilancio della zona euro. Quelle che stabiliscono i limiti al debito, al deficit di bilancio o al surplus commerciale. In altri termini sta per essere riscritto il Patto di Stabilità, sospeso proprio per permettere agli Stati membri di superare lo choc della pandemia. Quindi non c'è nulla di nuovo sotto il sole: il ritorno alla normalità sanitaria, così come quello di rigidi paletti finanziari per l'Italia, non può essere una sorpresa per nessuno, tanto meno per il governo. La questione è capire fino a che punto le nuove regole siano per noi severe ma giuste, ovvero risultino dettate dal furore dei Paesi frugali del nord Europa, guidati dalla Germania.

L'impianto del nuovo Patto abbozzato ieri - che sarà definito da Consiglio e Parlamento europeo entro l'anno - parte da un dato di fatto: abbiamo il debito di gran lunga più alto d'Europa, intorno al 145% del Pil. Ed era già 135% prima della pandemia. Per questo siamo sotto la lente, dobbiamo ridurlo per renderlo più omogeneo a quello degli altri. La Germania proponeva un taglio dell'1% l'anno, quasi 20 miliardi tra minori spese e maggiori entrate: draconiano. Il compromesso è stato quello di non fissare una soglia ma di imporre un arco temporale di 4-7 anni in cui far calare il debito di almeno 7-8 miliardi l'anno. Ma nello stesso tempo è indicata la strada da percorrere: investimenti, riforme e produttività saranno valutate come comportamenti virtuosi nella direzione desiderata. Moltiplicatori di crescita.

Ecco la sfida che il governo dovrebbe raccogliere, senza acredine nei confronti dei rigoristi, con la sicurezza di saper dotare la nostra economia di queste nuove virtù. Le stesse che i governi delle ultime due legislature non sono riusciti a fare: si pensi ai dati su crescita e produttività, che ci vedono maglia nera d'Europa da tempi non sospetti. Questa diventa allora la vera sfida che attende il governo di centrodestra in un orizzonte temporale di lungo periodo, che è poi quello che la premier Meloni mette in conto per poter lasciare realmente un segno. Tutto passa dalle riforme che nessun governo è riuscito a condurre in porto in questo millennio. Riforme anche impopolari, come quelle su servizi e concorrenza, o in altri casi difficili da digerire per una parte dell'elettorato di questa stessa maggioranza: si pensi al tema delle pensioni. D'altra parte, la sfida non è rinviabile e, a ben guardare, è pure coerente con gli obiettivi di un esecutivo di impronta liberista.

La contrarietà della Germania alle nuove regole concordate ieri per l'area euro la dice lunga sull'impostazione ideologica che pervade ancora gran parte d'Europa.

Un motivo in più, a un anno dalle elezioni europee, perché il governo nei prossimi mesi affronti il dossier economia con tutta la determinazione possibile. Così da non prestare il fianco a chi diffida nella capacità di modernizzare il Paese. Anche perché questa potrebbe essere l'ultima chance.

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