Scena del crimine

Lo shampoo al cervello e le torture: il "sogno" e il delitto del "Canaro"

La storia del Canaro della Magliana: quel mite Pietro De Negri che massacrò e torturò l'ex pugile Giancarlo Ricci ma solo post mortem

Screen "Dogman" via YouTube
Screen "Dogman" via YouTube

Sino a qualche giorno fa era uno come tanti […]. Ora non più”. Sono le parole di Pietro De Negri, noto come il Canaro della Magliana, autore di un efferato omicidio che ha ispirato letteratura e cinema.

“È una vicenda talmente letteraria, forse la più letteraria degli ultimi 50 anni. C’è la vendetta, il rapporto amore-odio, la crudeltà pazzesca di un uomo sempre tranquillo”, dice a IlGiornale.it lo scrittore e giornalista Massimo Lugli, autore insieme all’allora investigatore della Squadra Mobile di Roma Antonio Del Greco, del romanzo “Il Canaro della Magliana”.

Come Del Greco, Lugli è in effetti una delle memorie storiche di quella vicenda, che seguì in qualità di giornalista. “L’ho seguita come cronista di Repubblica all’epoca - racconta - Sono diventato scrittore nel 2007 con ‘La legge di lupo solitario’. Ho scritto 24 romanzi tra cui 7 con Antonio Del Greco. Lui e io abbiamo ripercorso alcune delle vicende di cronaca più eclatanti. Dato il film di Garrone in uscita, con cui non abbiamo nessun rapporto, abbiamo deciso, avendolo seguito lui come commissario di polizia e io come cronista, di metterlo in letteratura, in forma romanzata, cambiando tante cose, mentre altre sono prese dalla realtà”. Perché sul Canaro sono stati girati anche due film: il più celebre “Dogman” di Matteo Garrone e “Rabbia furiosa - Er canaro” di Sergio Stivaletti, entrambi lavori di fiction come pure il romanzo di Lugli e Del Greco.

Il delitto del Canaro

Pietro De Negri

È il 1988. Pietro De Negri è un uomo tranquillo, il proprietario di un negozio di tolettatura per cani. Ama moltissimo questi animali. Ama anche i libri, che divora per accrescere la propria cultura nonostante il suo livello di istruzione sia basso. Per tutta la vita ha cercato di essere un uomo onesto, ma non sempre ci è riuscito. Ha commesso diversi furtarelli, ma sono cose di poco conto. La moglie ce l’ha su con lui e a un certo punto lo manda via di casa. De Negri è anche un padre di famiglia. Vorrebbe accontentare la moglie ma a un certo punto della sua vita accade qualcosa di più grande di lui.

Un giorno, nel suo negozio alla Magliana, entra Giancarlo Ricci, un pugile che vive nel quartiere, con la scusa di far lavare il cane. Ricci è un ragazzone prestante e forte, ed è anche un prepotente: intima a De Negri di aiutarlo a rapinare il negozio accanto facendo un buco nel muro del suo esercizio. Lo picchia e se ne va senza pagare. Così a De Negri non resta che dare le chiavi a Ricci e andare a Frosinone con la famiglia per crearsi un alibi. Ma in realtà sarà solo De Negri a pagare per il reato: 10 mesi in carcere senza ricevere tra l’altro la sua parte del bottino, 110 milioni di lire.

Inizia tra De Negri e Ricci uno strano rapporto di sudditanza psicologica, per cui De Negri soccombe a diverse vessazioni. Finché, stando al memoriale fornito agli inquirenti, un giorno De Negri trova la porta del suo negozio spaccata e il suo cane per terra tramortito e sanguinante: è l’ultima goccia.

De Negri assume della cocaina trovata durante il furto di una macchina, cocaina che stava vendendo poco per volta per sbarcare il lunario e inizia ad assumerla. Nel delirio della droga decide di mettere un punto alla sua situazione con Ricci: lo attira nel negozio e lo chiude in una gabbia. Racconta poi di averlo cosparso di benzina, di avergli spaccato le ossa, di avergli inflitto numerose mutilazioni e di avergli lavato il cervello con lo shampoo per cani. Ma in realtà non accade nulla di tutto questo: il pugile muore per emorragia cerebrale dopo 40 minuti dal sequestro, dopo che lui ha colpito più volte il suo cranio. Tutte le torture del Canaro sono state inflitte post mortem.

“Il Canaro ha raccontato i suoi sogni, quello che voleva fare e non quello che ha fatto effettivamente - spiega Lugli - è come se lui abbia voluto aggravare e non alleviare la sua situazione. Il pugile morì in 40 minuti per la frattura della testa: gran parte delle lesioni furono inflitte post mortem. Probabilmente De Negri neanche lo sapeva, aveva continuato a infierire su un corpo inerme, era strafatto, anche se non poteva aver consumato la quantità ingente di cocaina dichiarata a verbale, e non era un medico. Non credo che ci sia stata una strategia precisa, una strategia per avere l’infermità mentale, non credo che lui fosse così lucido. Credo semplicemente che in qualche modo lui volesse fare quelle cose ma non le ha fatte, che ci sia stata un’escalation che non immaginava. Tra quei due c’era un rapporto particolare, sadomasochistico sul piano psicologico. Il Canaro era succube del pugile e nel film di Garrone questo lato è reso molto bene. Forse se il pugile avesse chiesto perdono, lui l’avrebbe risparmiato”.

Giancarlo Ricci

Dopo 7 ore: De Negri porta il corpo in una discarica e gli dà fuoco. È il 18 febbraio 1988, tre giorni dopo De Negri verrà arrestato e confesserà e per tutti diventerà il Canaro della Magliana. “Nessuno lo chiamava Canaro, solo Il Messaggero - chiosa Lugli - Lui era Pietro, non era del quartiere, ci lavorava solo. Questo soprannome che poi è diventato tutto. Alla Magliana apparve una scritta: ‘A cana’, sei tutti noi’”.

Ma come si ottenne la confessione del Canaro? “Lui confessò grazie alla sagacia di Antonio Del Greco e Rino Monaco, due sbirri con parecchi attributi”, chiarisce Lugli. In una puntata di Tg2 Dossier, Del Greco ha ricordato: “Lo pungolammo dicendo che lui non aveva il fisico e che non era all’altezza per fare una cosa del genere, che il Ricci lo avrebbe sicuramente soppresso, ma ad un certo punto lui ci guardò con gli occhi sbarrati, cambiò voce, gli venne una voce da film horror e per 40 minuti ci raccontò come lo aveva ammazzato e tutte le torture che aveva inflitto a questo poveraccio”.

Il processo

Una prima perizia psichiatrica attestò che il Canaro era incapace di intendere e di volere, così il 12 febbraio 1989 l’uomo fu scarcerato. Poi fu internato e alla fine del processo, il 26 giugno 1990 fu condannato a 24 anni di carcere, condanna confermata in appello. In prigione De Negri ci restò fino al 2005: fu un detenuto modello, si occupò di aiuto nei confronti dei migranti e dei malati di Aids. Oggi fa il fattorino e invoca il diritto all’oblio.

“Da cronista - illustra Lugli - il diritto all’oblio non è possibile: certe cose non possono essere dimenticate. Come si fa a dimenticare una vicenda del genere su cui sono stati fatti film, scritti libri, romanzi? Il Canaro si è comportato con grande dignità, perché è probabile che gli siano state fatte proposte allettanti ma ha sempre rifiutato. Lui vuole scomparire, ma non è possibile, come non è possibile per i fatti del Circeo, per Simonetta Cesaroni. È cronaca, sono fatti e lui è stato coinvolto in un fatto. Mi dispiace per lui ma non c’è nulla da fare. Tra l’altro è molto difficile con Internet anche per reati minori. Questa storia ha fatto parlare l’Italia e lì resta. Rispetto moltissimo la scelta di silenzio e understatement. Credo che sia una persona che potrebbe sorprenderci, alla luce di come si è comportato successivamente”.

C’è però chi non ci sta, chi non crede che De Negri abbia compiuto l’omicidio. Si tratta di Vincenzina, madre di Ricci, che nel 2018 ha dichiarato a “Chi l’ha visto?”: “Io lo sono andata a cercare. Quando avessi voluto, l’avrei schiacciato sotto la macchina. Ma siccome quel ‘pupazzo’ non è stato lui… Minimo lì erano in quattro. Non ha fatto niente a mio figlio. Gli piacerebbe, ma non l’ha sfiorato neanche con un dito”. Questa teoria però non è mai stata supportata dalla giustizia, per cui il Canaro è stato sempre l’unico colpevole dell’omicidio di Ricci. “Del Greco e Io non accettiamo nessuna verità alternativa - conclude Lugli - non ci sono stati complici, non c’erano altri moventi. Questo è provato dai fatti senza ombra di dubbio. Non c’era nessun disegno criminale, è stata una vendetta personale per le vessazioni che a un certo punto sono diventate insostenibili.

Non a caso esiste il detto: guardatemi, o dei, dalla collera del mansueto”.

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