Benvenuti all’inferno. Brindisi come Bogotà ai tempi del narcotrafficante Pablo Escobar. Attentati esplosivi, omicidi, regolamenti di conti, traffici di armi e droga, racket e usura. Lo scenario tratteggiato nelle ultime informative della Direzione investigativa antimafia fa accapponare la pelle.
I clan Pasimeni-Vitale e i Rogoli-Buccarella hanno ingaggiato una furibonda guerra senza quartiere che sta seminando terrore e morte. La posta in palio è il controllo della filiale locale della Sacra corona unita, o meglio di una «nuova» Scu che vuol mettere le mani sul business milionario del malaffare. A cominciare dai fondi europei destinati ad aziende che nascono e muoiono nel giro di pochi mesi intorno all’aerea del Petrolchimico. In mezzo, ostaggi della faida, ci sono la città e l’intera provincia. I rastrellamenti mafiosi sono all’ordine del giorno. La pressione criminale sul territorio è deducibile dalla frequenza e dalla virulenza dei reati-spia connessi alle estorsioni – osservano gli investigatori della Dia – «quali, in particolare, gli incendi e i danneggiamenti che hanno interessato Brindisi, Mesagne, Fasano, Francavilla Fontana, Ceglie, S. Pietro Vernotico e Ostuni».
I bombaroli colpiscono senza pietà. Avvertimenti e punizioni sono esemplari. La minaccia si è manifestata nei confronti di «stabilimenti balneari, strutture alberghiere, sedi di aziende, autovetture, beni mobili e immobili appartenenti a commercianti, capannoni industriali, farmacie, concessionarie auto, magazzini di stoccaggio merci, paninoteche, bar nonché semplici negozi di alimentari». Pure gli spacciatori di droga pagano il pizzo e, quando gli accordi criminali saltano, scattano anche per loro le sentenze capitali. Nell’area a sud di Brindisi si sono verificati gravi «episodi delittuosi in danno di soggetti sospettati o indiziati di commercio illegale di sostanze stupefacenti» che danno la cifra di una «situazione di effervescenza criminale, foriera di un possibile cambiamento negli assetti della criminalità organizzata o di una inversione di tendenza nella strategia del mimetismo sinora perseguita». A Cellino San Marco non è passata la paura per il colpo di pistola alla testa di Gianluca Saponaro, grosso trafficante internazionale di San Pietro Vernotico. Quattro giorni prima, l’abitazione di un suo affiliato era stata crivellata di proiettili. Le informative antimafia parlano chiaro. Nessuno è più al sicuro: «professionisti, sindacalisti e appartenenti alle forze dell’ordine» sono finiti nel mirino dei gruppi organizzati e dei «cani sciolti».
L’intera area metropolitana è una polveriera, ma la Dia tiene d’occhio in particolare San Pietro Vernotico, dove il 19 marzo 2010 l’operazione New Fire (10 arresti per incendi, rapine, estorsioni, furti, armi e droga) ha portato alla decapitazioneuna pericolosissima cellula terroristico-mafiosa. E dove gli «atti di intimidazione, a colpi di arma da fuoco, registrati nei mesi di gennaio e febbraio scorso» avevano creato un clima di «intimidazione sociale finalizzata all’attività estorsiva». Gli investigatori sospettano che l’atmosfera da guerriglia mediorientale in città di quei mesi fosse una strategia ben precisa, adottata per «determinare il trasferimento del comandante della stazione carabinieri di San Pietro Vernotico» che, con le sue indagini, aveva creato nonpochi problemi al clan. Un episodio tutt’altro che isolato contro i rappresentanti dello Stato. A Mesagne, sempre nello stesso periodo, si erano verificati «due incendi, in danno di beni di proprietà di due appartenenti alla Polizia di Stato, rispettivamente in servizio presso il commissariato di Ostuni e quello di Mesagne» che avevano partecipato ad alcune attività d’indagine proprio contro il racket delle estorsioni. Non va meglio, ovviamente, ai magistrati che combattono in trincea contro le fameliche orde mafiose. Al pm che lo aveva fatto arrestare, il boss del rione Perrino di Brindisi, Benito Leo, voleva incendiare l’ufficio. E, assieme ai locali della Procura, dovevano essere inceneriti anche i negozi di chi non pagava la tangente. L’ordine l’aveva fatto partire dal penitenziario dov’era detenuto. I complici vennero fermati appena in tempo. Tritolo e fiamme sono le armi di distruzione di massa dei clan. Negli ultimi tre anni l’escalation è stata impressionante: una trentina di intimidazioni nel Brindisino è finita nei fascicoli della polizia. Gli ultimi episodi si sono verificati a Mesagne (fucilate contro la palestra «G.fit Club») e nel capoluogo, dove i «signori del pizzo» hanno preso a pallettoni la saracinesca di una boutique. E, appena una decina di giorni fa, l’auto di Fabio Marini, presidente della locale Associazione antiracket, è stata divorata dalle fiamme.
Le cosche brindisine sono difficili da contrastare perché hanno una spaventosa potenza di fuoco. In appena sei mesi lo Stato ha preso a schiaffi i clan che si stavano riorganizzando militarmente. Sequestrati 10 fucili, 3 pistole, una bomba a mano e due «ordigni esplosivi artigianali idonei a commettere attentati dinamitardi». Niente in confronto al sequestro di otto chili di polvere da sparo per cave scoperti a Oria, insieme a 70 metri di miccia a lenta combustione e altri trenta metri di miccia detonante. Roba da professionisti. Come dimostra la scelta della Sacra corona unita brindisina di affidarsi ad artificieri esperti per le operazioni «pirotecniche» più spettacolari. Non «soldati semplici» che posizionano le bombe, come fa la camorra napoletana, ma specialisti che sanno perfettamente come si piazza un timer e come si può far saltare in aria un palazzo. Sono 84 i mafiosi assicurati alla giustizia in un anno. L’ultima operazione, ricorda la Dia, è di appena dieci giorni fa.
Sedici affiliati sono stati arrestati per una sfilza di reati che vanno dall’associazione mafiosa alle estorsioni, dal danneggiamento all’incendio doloso. L’inchiesta l’hanno ribattezzata «Die hard», duri a morire. Come i malavitosi di queste parti.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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