Dalla storia impariamo la lezione giusta

La libertà adesso te la immagini. È una finestra aperta, un rumore che viene dalla strada, un segnale di vita, perfino una pizza a domicilio, con il fattorino che dice: meno male che un po' si lavora.

Dalla storia impariamo la lezione giusta

La libertà adesso te la immagini. È una finestra aperta, un rumore che viene dalla strada, un segnale di vita, perfino una pizza a domicilio, con il fattorino che dice: meno male che un po' si lavora. Il 25 aprile è una primavera che ti illumina la stanza, ma da prigioniero, da segregato, ostaggio di un virus che non si vede e neppure si conosce. Dicono che ci accompagnerà a lungo. Distanza, mascherine, si va a piedi o in bicicletta. E poi, che giorni ci aspettano? Perché adesso non si può rimandare. Non lo puoi sospendere. Sai che davanti c'è il deserto, una crisi da tempi lontani, da stagioni di guerra. In pochi l'hanno vissuta. Non c'è una ricetta sicura per affrontarla, perché certe cose le vivi sulla pelle. È la resistenza alla paura. Ecco. Come saranno gli italiani, a quale spirito o demone si affideranno? Il Novecento mette sul piatto due modelli. Il primo ha più o meno cento anni. La Grande Guerra è finita. I reduci tornano a casa. Sono usciti dalle trincee, giocando tutti i giorni a dadi con la morte. La normalità è un sospiro e quasi li spaventa. Non c'è lavoro. Non si intravede un futuro, perfino adesso che il peggio è passato. La rabbia te la porti in tasca. C'è voglia di frantumare tutto, di farla pagare al governo, ai signori con il cilindro in testa, ai vigliacchi e a chi non ha sofferto. C'è voglia di cambiare tutto. La democrazia è una parola vuota, un inganno, una menzogna. È la violenza l'unico santo a cui affidarsi. Arriva il 1919 e poi il 1920. Lo chiameranno il biennio rosso. Scioperi e manganellate. I rossi e i neri si promettono e scambiano imboscate. A morte risponde morte. Questa storia si sa come va a finire. La sintesi è in due orazioni parlamentari. Il primo discorso di Mussolini da capo del governo, quello del bivacco, novembre 1922, segna la morte della democrazia. L'ultimo discorso di Giacomo Matteotti, 30 maggio 1924, è l'orazione funebre per quel che resta della libertà. È la fine di una guerra civile e l'inizio di una dittatura. La rabbia e la violenza hanno trovato pace in una camicia nera. Pochi la rifiuteranno, molti la rinnegheranno.

Arriva un'altra guerra e, se possibile, è ancora più drammatica. È un Paese diviso. È la storia del 25 aprile. È la liberazione. Ma qui ci interessa quello che accade dopo. Le cicatrici ci sono ancora adesso. Non vanno via, eppure c'è una sorta di miracolo. Il dopoguerra è fame e macerie. C'è da ricostruire tutto, anche la democrazia. Ci sono i soldi degli americani, certo. Non sono però solo quelli a fare la differenza. È la libertà, la fame di futuro, l'orgoglio, la voglia di vedere in quelle macerie un mondo, un sogno. È lavoro a testa bassa e immaginazione. È visione, coraggio, perseveranza. È l'invenzione della schedina per finanziare le Olimpiadi di Roma. È l'Autostrada del Sole.

È, certo, anche quello che pagheremo salato anni dopo: le mani sulla città e gli occhi chiusi a negare la mafia e tante altre cose. La ricostruzione non è stata perfetta, però c'è stata. Tutti bene o male sapevano di stare sulla stessa barca.

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