Scena del crimine

Nella "tela del ragno": così il "mostro" dava le vittime in pasto ai maiali

Ernesto Picchioni fu il primo assassino seriale italiano del '900. Per attirare le sue vittime tesseva una "tela", che le costringeva a entrare nella sua casa. La giornalista Rita Cavallaro: "Faceva a pezzi le vittime e le dava in pasto ai maiali"

Nella "tela del ragno": così il "mostro" dava le vittime in pasto ai maiali

Chiodi, candele e una casa accogliente. Erano gli ingredienti che Ernesto Picchioni, ribattezzato dalle cronache come "il mostro di Nerola", utilizzava per attirare le sue vittime in trappola. Le aspettava, come fa un ragno con le mosche, dopo aver tessuto la tela. Poi le colpiva, le uccideva, rubava tutto quello che possedevano e le seppelliva in giardino. Così, il chilometro 47 della via Salaria, che da Roma porta a Porto d'Ascoli sul Mare Adriatico, divenne tristemente noto negli anni immediatamente successivi alla Seconda Guerra Mondiale, quando Picchioni iniziò a colpire.

"Lui è il primo serial killer italiano della storia moderna", ha spiegato a ilGiornale.it la giornalista Rita Cavallaro, autrice insieme a Emilio Orlando del libro "22 gradini per l'inferno. Dal mostro di Nerola al depezzatore di Roma. I serial killer italiani nella scala del male", edito da Male Edizioni di Monica Macchioni, che analizza gli assassini seriali italiani, per capirne il grado di malvagità. "Lui, nonostante abbia commesso molti delitti in maniera efferata - continua la giornalista - non si pone a un livello alto della scala del male, perché non agiva per piacere o impulsi sadici, ma uccideva per profitto".

Chi era Ernesto Picchioni?

Nato nel 1906 a Ascrea (Rieti), Ernesto Picchioni era andato ad abitare vicino a Nerola, in una casa costruita su un terreno che si estendeva al lato della via Salaria. "Ha iniziato ad agire nel periodo della Seconda Guerra Mondiale - ha precisato la giornalista Cavallaro - Era un periodo in cui c'erano guerra, fame e disagio sociale ed erano stati creati dei quartieri per i reietti". Durante e immediatamente dopo la guerra, le persone povere e quelle che vivevano nell'emarginazione e nel disagio erano tante. L'uomo che divenne "il mostro di Nerola" era tra queste.

Era un contadino che per vivere, a suo dire, vendeva lumache. Picchioni viene descritto dall'Unità come un uomo "tarchiato, basso, robusto. Un volto chiuso, come il guscio di una grossa noce. Mani grandi, forti, abituate alla zappa e all'aratro. Occhi piccoli nascosti sotto sopracciglia folte e sporgenti". Era una persona "senza cultura, appartenente al basso ceto sociale e non aveva un lavoro - ricorda la giornalista Cavallaro - era un perditempo. Passava le giornate senza far nulla se non giocare a dadi, frequentare bische clandestine e andare a bere nelle osterie fino a ubriacarsi".

Viveva in un'abitazione al 47esimo chilometro della via Salaria insieme alla moglie Filomena e ai loro quattro figli, tre femmine e un maschio. Ma quella casa Picchioni l'aveva ottenuta con la forza. L'uomo infatti aveva aggredito il proprietario del fondo sul quale abitava abusivamente e lo aveva colpito con una pietra. Per questo era stato condannato a scontare alcuni mesi di carcere, ma poi aveva continuato a vivere in quella casa insieme alla famiglia. E anche lì, nel focolare domestico, Picchioni non risparmiava botte, minacce e insulti. "Per lui, la moglie andava comandata e sottomessa, con botte e soggiogamento psicologico - ha spiegato Rita Cavallaro a ilGiornale.it - In questo quadro, lui agiva sempre con carattere da despota e manipolatore, sia all'interno che all'esterno della famiglia, attuando minacce per cercare di imporre la sua volontà". Fu in questo contesto che iniziò ad agire il "mostro di Nerola".

Come un ragno che tesse la tela

"Vieni nel mio salotto, disse il ragno alla mosca". In una poesia scritta nel 1829 da Mary Howitt, il ragno gettava l'esca per far cadere in trappola la sua preda, senza muoversi dal suo nascondiglio. Lo stesso faceva Ernesto Picchioni. Ma la sua tela era fatta di chiodi e candele. Il "mostro" infatti aveva messo a punto una strategia efficace, che gli permetteva di attirare a sé le sue vittime, che entravano volontariamente in casa sua.

"Buttava dei chiodi per terra - ha raccontato la giornalista Cavallaro - e quando qualcuno passava in bicicletta o in motocicletta bucava". Così chi percorreva la via Salaria si ritrovava con una gomma forata al chilometro 47. Intorno il nulla. Impossibile chiedere aiuto a qualcuno. Ma poi, poco lontano, i passanti scorgevano qualcosa: "Si vedevano solo le luci fioche della casa di Picchioni - ha spiegato Rita Cavallaro - Lui lasciava accese apposta le luci delle candele per farsi vedere. Perché era l'unica cosa che si vedeva nel buio e attirava così le sue vittime".

Chi era in difficoltà si avvicinava a casa sua e vi trovava un contadino gentile e disponibile: "Una volta aperta la porta, Picchioni recitava la sua parte e, come un ragno, le attirava all'interno". La recita consisteva nell'offrire alle persone chiedevano aiuto "cibo e vino. Poi si offriva di ospitarli per la notte, dicendogli che l'indomani li avrebbe aiutati a cambiare la gomma", spiega la giornalista Cavallaro. Ma quando il malcapitato di turno si addormentava, l'assassino "entrava nella stanza, lo colpiva e lo uccideva. Una volta morto, Picchioni portava via alla vittima tutto quello che aveva, soldi, gioielli e lo spogliava anche dei vestiti. Poi lo faceva a pezzi e una parte la sotterrava e l'altra la dava in pasto ai maiali".

Negli anni successivi all'arresto dell'uomo anche i giornali raccontarono la tecnica utilizzata dal "mostro di Nerola", paragonandola ad una ragnatela: "Secondo la sentenza, il Picchioni aveva escogitato una trappola - si legge su un numero dell'Unità di diversi anni dopo la scoperta dei corpi - Aspettava le vittime come un ragno al centro di una rete. La rete era formata di chiodi disseminati sulla Salaria. Passava un ciclista, un motociclista, un automobilista, forava, chiedeva aiuto alla casa più vicina. Il 'ragno' sembrava gentile, offriva cibo e vino, ubriacava il malcapitato e lo uccideva per derubarlo". Lo scopo di Ernesto Picchioni, infatti, era quello di recuperare qualche soldo e oggetto, per poter continuare con la sua vita di sempre, tra osterie, partite a carte e debiti. Una dopo l'altra, le sue prede rimanevano impigliate nella tele e il "mostro di Nerola" otteneva soldi o oggetti.

Le vittime del mostro di Nerola

Otto. È il numero delle vittime accertate ma, secondo le dichiarazioni della moglie, ce ne sarebbero molte di più. Difficile il riconoscimento dei resti, dato che "non si trovarono mai i corpi, perché lui li faceva a pezzi e una parte andava in pasto ai maiali, mentre l'altra la sotterrava", ha raccontato a ilGiornale.it la giornalista Rita Cavallaro.

Tra le vittime sospette, un nome è certo: Pietro Monni, un avvocato di Rieti, scomparso il 5 luglio del 1944. Quel giorno, ricostruirono poi gli inquirenti, Monni passava sulla Salaria, diretto a Ponterotto, una frazione a pochi chilometri da Nerola, provenendo da Roma. Al chilometro 47 però, un chiodo sulla strada gli fece bucare una gomma. Intorno a lui il nulla, tranne un'abitazione: quella di Ernesto Picchioni. Il contadino gli aprì la porta, fornendogli aiuto. Poi il "mostro" colpì l'avvocato, lo uccise e lo depredò di ogni avere. E seppellì il corpo.

"La causa della morte fu senza dubbio prodotta dallo scoppio del cranio, scoppio che, a ricostruzione eseguita del cranio, si è potuto stabilire essere stato conseguenza di un colpi d’arma da fuoco a proiettili multipli esploso contro la regione posteriore destra del cranio", si legge sul referto medico, riportato su La zona morta. Il corpo venne seppellito nell'orto davanti all'abitazione del "mostro".

Quando i carabinieri andarono a scavare, spiega la giornalista Cavallaro "riuscirono a identificare solamente il corpo di Pietro Monni. Gli altri erano resti". Quando Picchioni venne interrogato sull'omicidio dell'avvocato Monni, ammise di averlo ucciso, ma tentò di giustificarsi, come riportò un numero dell'Unità del 1985: "Mentre mangiava - disse - cominciammo a discutere. Era un uomo istruito, voleva avere sempre ragione e allora io cominciai a odiarlo, gli urlai degli insulti. Lui mi rispose. Io afferrai un fucile e lo freddai. Poi lo seppellii nell’orto".

Oltre a quello di Pietro Monni, i giornali dell'epoca fecero anche il nome di Alessandro Daddi, impiegato al Ministero della Difesa e scomparso nel maggio del 1947, mentre si recava a trovare la madre a Contigliano, in provincia di Rieti. Il giorno della scomparsa, Daddi viaggiava a bordo di una bicicletta su cui era stato montato il Cucciolo, un piccolo motore che trasformava la bici in una sorta di motocicletta. Secondo quanto sostennero i quotidiani del tempo, anche il Daddi avrebbe bucato al chilometro 47 della Salaria e avrebbe chiesto aiuto a Picchioni, che lo avrebbe ucciso.

Il "mostro", si legge sull'Unità, avrebbe confessato l'omicidio: "Anche il Daddi bucò, chiese aiuto e fu ucciso. Perché? 'Lui mi insultò e mi aggredì - narrò il Picchioni - Era ben più alto di me e, quando stava per buttarmi a terra, riuscii ad afferrare un coltello e a colpirlo alla gola'". In realtà, ha spiegato la giornalista Rita Cavallaro, "non c'è una certezza. L'unico accertato dai documenti è Pietro Monni". Gli altri resti ritrovati nel terreno vicino alla casa di Picchioni "erano solo pezzi di corpi - spiega la giornalista - e dalle analisi scoprirono che alcuni erano di un adolescente, mentre altri di un signore con i baffi. Riuscirono ad accertare otto vittime, ma la moglie disse che il marito ne uccise molti di più".

"Avrebbe continuato a uccidere"

Nell'ottobre del 1947 Ernesto Picchioni venne fermato. Ma, secondo la giornalista Rita Cavallaro, "sicuramente, se non fosse stato arrestato, avrebbe continuato a uccidere". E probabilmente non avrebbe colpito solo persone estranee: "I carabinieri - continua la giornalista - avevano scoperto che lui aveva già messo in contro anche di sterminare la sua famiglia", sia la moglie che i figli. Ma fu proprio la sua famiglia a fermare "il mostro di Nerola".

Un giorno, infatti, la moglie Filomena "uscì di casa con una scusa e corse alla stazione dei carabinieri e raccontò tutto. Così venne fuori chi era davvero Ernesto Picchioni". La moglie parlò degli omicidi, della trappola messa a punto dal marito, che aveva costretto lei e il figlio Angelo a scavare la fossa dell'orto, dentro la quale seppelliva i resti delle sue vittime: "Ha confessato di essere stata costretta a seppellire il cadavere, sotto la minaccia di fare la stessa fine - si legge nell'Unità del 30 ottobre 1947 - Anche i figli del Picchioni, Angelo di 14 anni, Valeria di 10, Carolina di 8 e Gabriella di 4 e la vecchia madre Clorinda, vivevano sotto l'incubo del malvivente. Una volta il Picchioni aveva costretto la moglie e il figlio più grande a scavare una fossa e poi aveva detto: 'Qui ci metterò voi e tutti gli altri se fiaterete'".

Fu forse anche questa paura a spingere Filomena a parlare. "Fu grazie alla moglie che venne fuori tutto - ha spiegato Rita Cavallaro - Altrimenti nessuno avrebbe mai immaginato l'orrore che aveva messo in scena in quegli anni" Ernesto Picchioni, perché in quel tempo, con la guerra, la scomparsa di una persona non rappresentava un evento straordinario. Ma la donna, rendendosi conto che Picchioni avrebbe potuto uccidere anche lei e i figli, decise di raccontare la verità e indicò agli inquirenti il luogo in cui avrebbero dovuto scavare per trovare i resti delle vittime.

Il processo contro l'uomo ormai conosciuto come "il mostro di Nerola" iniziò nel marzo del 1949 e, in tribunale, la moglie raccontò nuovamente gli orrori commessi dal marito. Il 13 marzo 1949, la Corte d'Assise di Roma condannò Ernesto Picchioni a due ergastoli e 26 anni di carcere. I giudici, come spiegò l'Unità, lo ritennero "un simulatore". Ma, successivamente,"il direttore del carcere nel quale il Picchioni scontava la sua pena accertò che l'ergastolano non era completamente padrone di sé e Io fece ricoverare al manicomio giudiziario di Reggio Emilia, dove egli fu trattenuto per quattro anni".

Per questo, mentre era in attesa dell'Appello, l'uomo venne sottoposto a una perizia psichiatria. Ma, la perizia accertò l'assenza di infermità mentale, che il Picchioni intendeva simulare: "Al termine delle osservazioni cui è stato sottoposto, il detenuto in oggetto è risultato esente da infermità mentale in atto - si legge nella perizia riportata su La zona morta - Egli presenta solo le note di una costituzione neurodegenerativa originaria ed esibisce disordini del pensiero e della condotta di natura chiaramente intenzionale". Nel 1954 l'Appello confermò la condanna all'ergastolo e nel 1956 la Cassazione rese definitiva la sentenza.

Ernesto Picchioni morì in carcere nel maggio del 1967.

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