Il tradimento dell'Università

Quando il senso di responsabilità viene meno, urge trovare la forza di reagire

Il tradimento dell'Università

Non è stato evidenziato quanto si sarebbe dovuto che Charlie Kirk è stato ucciso all'interno di un'università. In un luogo ostile alle sue idee, dove però gli si era dato spazio, contando poi di poterlo contrastare e smentire. Una settimana più tardi, l'Associazione dei professori universitari americani ha pubblicato un lungo documento in difesa della libertà di parola nei campus, senza tuttavia menzionare esplicitamente l'assassinio del giovane attivista. Difficile - e anche sbagliato - non mettere in correlazione questi fatti con quanto sta accadendo nei nostri atenei. Per farlo, non è necessario attendere fino a quando si compia l'irreparabile. Alcuni episodi sono già inquietanti. E riportano alla memoria gli anni Settanta, quando per tanti nostri giovani l'università divenne il viatico verso il terrorismo.

Nei giorni scorsi, a Pisa, una ventina di studenti "pro Pal" hanno fatto irruzione in un'aula, interrompendo le lezioni. Un docente di diritto, accusato di "sionismo", ha rimediato non un argomento ma un pugno. Da studiosi di chiara fama abbiamo udito distinguere l'omicidio di Kirk da quello di Martin Luther King con dotte dissertazioni sulla differenza tra "comprensione" e "giustificazione". Con buona pace dell'eguale dignità di ogni vita umana. Né è mancato chi, in ambito accademico, ha rilanciato la falsa notizia del killer di Kirk come "finanziatore della campagna elettorale di Trump": una fake news che tradisce la funzione critica e razionale che gli atenei non dovrebbero mai smarrire. L'università è il luogo dove le idee, anche le più impopolari, debbono poter essere espresse senza timore di censura. La sua autonomia ha radici che affondano nel Medio Evo. E si fonda sul fatto che in quello spazio, attraverso il confronto, si ricerchi la verità. Ma se viene meno il presupposto del confronto, l'autonomia si trasforma in separatezza, irresponsabilità e, infine, in presunzione fatale. Finché si è in tempo bisogna erigere un argine contro le sopraffazioni: di qualunque tipo e da qualunque parte esse arrivino. La libertà di insegnamento è sacra e non si tocca. Né serve aprire siti che invitino il popolo incattivito della Rete alla delazione contro chi esprime le proprie idee sul messaggio politico di Kirk. Quelle piattaforme, peraltro, sono già state chiuse ed è bene che sia stato così. La libertà di pubblicare, di leggere e scrivere ciò che si vuole non è mai stata minacciata come oggi in Occidente. Non possiamo permetterci di offrire occasioni e pretesti affinché la deriva venga alimentata. Ma ciò non significa che si debba girare la testa dall'altra parte. Quando il senso di responsabilità viene meno, urge trovare la forza di reagire. E la cosiddetta maggioranza silenziosa deve saper ritrovare la voce e il coraggio. Quel che servirebbe, allora, è un'azione che parta dall'interno della comunità accademica. Una reazione contro gli irresponsabili che, se dovesse servire, dia vita a forme organizzative temporanee che durino fino al raggiungimento dello scopo, per poi dissolversi.

Sul finire degli anni Ottanta a Renzo De Felice, grande storico e collaboratore di il Giornale, si sarebbe voluto impedire di fare lezione perché le sue idee sul fascismo erano ritenute inaccettabili e incomunicabili. Non mancò chi, in accademia, provò a giustificare il sopruso. Ma decine di colleghi, scrittori, persino l'Unità, allora organo del Pci, si levarono in sua difesa nel nome della libertà di insegnamento. De Felice non cedette alle intimidazioni. Tenne le sue lezioni in mezzo a clamori e proteste.

Ne pagò, certamente, un prezzo personale. Ma oggi le sue analisi non soltanto sono considerate legittime; hanno persino conquistato l'egemonia nel mondo degli studi e nel senso comune. È solo un esempio. L'auspicio è che possa averci insegnato qualcosa.

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