Tutte le trame dietro SuperMario

Siccome c'è ancora tempo si può giocare al dilemma del pezzo pregiato in una stanza affollata. È il quesito su cui in questi giorni si interroga la sinistra. Che fare di Draghi? La statua è di grande valore.

Tutte le trame dietro SuperMario

Siccome c'è ancora tempo si può giocare al dilemma del pezzo pregiato in una stanza affollata. È il quesito su cui in questi giorni si interroga la sinistra. Che fare di Draghi? La statua è di grande valore. È una sorta di totem che rende le varie famiglie piuttosto tranquille. Quando non ti viene in mente un'idea di futuro vai a rifugiarti sotto la sua ombra. Tutti in apparenza sono devoti a Mario, solo che adesso bisogna decidere se traslocare i suoi poteri magici sulla casa in collina o tenerlo in negozio, dove si trova adesso, nel cuore degli affari, in coabitazione con alcuni soci mal sopportati o con vecchie ruggini da scartavetrare. Il personaggio è ingombrante e finisce per condizionare le scelte e le ambizioni di molti. È una pratica da risolvere in tre o quattro mesi, con la fatica di trovare un'alternativa se si concretizza l'idea di lasciarlo al suo posto.

L'altro ieri Andrea Marcucci, renziano rimasto nel Pd, ha buttato lì il pensiero che in caso di vittoria alle elezioni del 2022 Letta deve indicare Draghi come capo del governo. Questo significherebbe per il buon Mario una prospettiva di lavoro almeno fino al 2027. Niente Quirinale, ma un lungo corso a Palazzo Chigi. La suggestione è subito piaciuta a Carlo Calenda, che la pone come architrave della sua azione politica, tanto da sognare una grande coalizione dai confini mai visti. Cosa dice Calenda su Repubblica? Serve una maggioranza Ursula che vada oltre il 2023 e si estenda da Giorgetti a Bersani, con dentro Pd, Italia Viva, Azione e Forza Italia. «Oggi la frattura passa su un crinale diverso dal passato, chi crede nella democrazia liberale e chi no. Letta è più vicino a Carfagna che alla Raggi». Fuori restano Salvini, Meloni e Conte con la truppa sparsa dei Cinque Stelle. Le preoccupazioni sarebbero tutte per Draghi che si ritrova a gestire una maggioranza non più di emergenza, ma politica e piuttosto strabica. Calenda sostiene che il mondo è cambiato e tutti i dubbi nascono dagli occhiali vecchi.

La risposta che arriva dal Pd è che quelle di Calenda sono infinite facezie e lo dicono senza sapere di citare Amleto e tanto meno David Foster Wallace. Enrico Letta si dichiara molto più pragmatico. Il suo obiettivo è arrivare a Palazzo Chigi e il passaporto scelto sono i voti sparsi di Conte. Non ci sono altre strade. Draghi, se vuole, può apparecchiarsi sul Colle. È un buon posto dove svernare e poi se serve può sempre essere usato come bandiera. Letta ormai si è convinto di poter vincere e non vuole neppure legare più di tanto i suoi destini alla statua di Mario. Non è che questa cosa la dice proprio così. C'è però uno strano sentimento che lega il Pd a Draghi. La ragione ti dice che la sinistra dovrebbe guardare a Draghi come una benedizione. Li ha rimessi in piedi. Li ha tirati fuori dalla stagione del governo a braccetto con i grillini. Invece l'idillio con Draghi non c'è mai davvero stato. Resta una distanza, una strana diffidenza, una freddezza di fondo.

L'impressione è che lo vogliano al Quirinale soprattutto per toglierselo dai piedi. L'altro ieri in Consiglio dei ministri la tensione tra Draghi e Franceschini è stata così densa che non si è riusciti a nasconderla. Il capo del governo ha dovuto rimettere al suo posto il ministro con gesti e parole di stizza. Il fastidio nasce dall'abitudine di Franceschini di rimpiangere i bei tempi del governo Conte. È l'aspetto irrazionale di questa storia.

Nel Pd resiste un sentimento di vedovanza.

Il Conte bis resta l'architrave dell'azione politica, un punto di riferimento da cui non discostarsi troppo. Il dubbio è che la colpa sia di Matteo Renzi. La sua mossa di scacchi per far cadere il precedente governo resta nella coscienza dei Dem una violenza mai superata. È il peccato originale di Draghi.

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