Tu mi stronchi Volkswagen? E io ti azzoppo Facebook . A pensare male, la sentenza della Corte europea che boccia il più grande social netwok in materia di privacy dei dati, è l'ennesima puntata della guerra commerciale tra Europa e Stati Uniti. Ma anche senza scivolare nella dietrologia che vede una regia dietro questi episodi, è evidente che tra le due sponde dell'Atlantico è scontro cultural-economico.
La Corte di giustizia, sede in Lussemburgo, Paese che accorda la privacy soprattutto a chi vuole risparmiare sulle tasse, ha annullato una decisione del 2000 della Commissione Ue che definiva «Safe harbor», un porto sicuro, i centri dati di Facebook in California che trattano e conservano i dati degli utenti, inclusi quelli europei. L'articolata motivazione dei giudici comunitari sottolinea che le garanzie fornite dalle aziende non bastano, perché al di là dell'oceano la sicurezza prevale e dunque le agenzie governative possono obbligare i colossi del web ad aprire gli archivi, come ha dimostrato il Datagate , e in generale non è previsto come in Europa, di limitare la conservazione delle nostre informazioni personali «allo stretto necessario». Alla decisione plaude il Garante della privacy italiano, Antonello Soro che però si affretta a invocare «una risposta coordinata a livello europeo da parte dei garanti nazionali», cogliendo così un punto nodale: la Corte infatti rimette alle authority nazionali, d'ora in avanti, di valutare se Facebook e qualunque altra azienda che conserva i dati dei clienti fuori dall'Europa, garantisca una sufficiente protezione dei dati: questa parte della sentenza può mettere a rischio i grandi servizi web come li conosciamo ora. Una follia: sulla carta potrebbe accadere che ognuna delle 28 authority decida in modo diverso per ciascuna azienda.
La sentenza così mette a rischio potenzialmente l'attività in Europa non solo di Facebook , ma anche di servizi ormai essenziali per le nostre vite targati Amazon , Apple , Google . Non è nemmeno una possibilità così remota. La Corte ora ha rimesso al garante della privacy dell'Irlanda, Paese dove ha sede la branca europea di Facebook , di stabilire se, in assenza di improbabili cambiamenti immediati della normativa sulla privacy negli Usa, si debba sospendere il trasferimento oltreoceano dei dati di utenti europei. I giganti del web hanno enormi centri di gestione dei dati nella Silicon Valley. Senza far ricorso queste infrastrutture, è tutto da dimostrare se siano in grado di gestire le proprie attività in Europa. Uno stato di cose che da un lato garantisce agli Stati Uniti di continuare a essere il dominatore dell'intera infrastruttura di internet nel mondo, dall'altro permette a noi europei, che non abbiamo un'industria del web all'altezza, di usufruire delle app, dei siti, dei servizi di e.commerce che ci hanno cambiato la vita.
Qui innestano le differenze culturali tra Europa e America. Molti ieri anche in Italia hanno festeggiato la sentenza insieme a Snowden, la «talpa» che ha svelato il Datagate , secondo cui «dopo questa sentenza siamo tutti più sicuri». Perfino stati accusati di spiare i propri cittadini come la Germania, ipocritamente, si sono detti soddisfatti. Ma il Datagate è in parte una bolla di sapone: certo le agenzie come l'Nsa rastrellano il web in cerca di minacce per la sicurezza americana, forse anche di informazioni industriali utili, ma, al netto dei casi di abuso, tra noi e aziende come Facebook c'è un patto assolutamente innocente: noi vi consegniamo dettagli delle nostre abitudini, voi li studiate per realizzare pubblicità mirate e in cambio ci date un servizio gratis o a prezzi convenienti. Un patto su cui si basa la possibilità stessa di questi servizi innovativi di funzionare. Chi consegnasse a Facebook o Google segreti veri, anziché qualche foto dimenticabile e gli indirizzi dei ristoranti che ci piacciono (notizie difficilmente appetibili per l'Nsa) commetterebbe una clamorosa ingenuità. Da noi la privacy invece comincia ad assumere una coloritura anti americana e anti capitalista (la causa a Lussemburgo è stata intentata da un avvocato austriaco fondatore del movimento «L'Europa contro Facebook »). Col risultato che da un lato da noi rischia di diventare sempre più difficile sviluppare startup per servizi innovativi sul web.
E dall'altra si trovano soluzioni formalistiche, all'italiana, come l'inutile avviso «questo sito usa i cookie » che nessuno legge ma dà fastidio a tutti. Per fortuna a Bruxelles pare prevalere il pragmatismo, la commissaria Ue alla Giustizia Vera Jourova ha annunciato che si tenterà di chiude un nuovo accordo con gli Usa «il più presto possibile».- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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