Chiamatela integrazione. O forse no. Non chiamatela affatto. Perché c'è veramente poco di intelligente nel costringere una bambina italiana a ritrovarsi sola in una classe di stranieri. E non serve neppure aggrapparsi al solito ritornello "gli altri alunni hanno solo un nome diverso, ma sono nati in Italia". E lo spiega bene la storia di una bimba di Modena, costretta ad abbandonare la scuola elementare perché rimasta unica bandiera nostrana in un'aula di vessilli multinazionali.
Riavvolgiamo il nastro. La settimana scorsa Rosaria, madre di una bambina che frequenta (anzi, frequentava) la seconda classe dell'istituto Cittadella a Modena, si è decisa a rendere nota ai giornali la paradossale situazione in cui si ritrovava sua figlia: sola in una classe con 18 immigrati. "Io non ho paura dello straniero - aveva raccontato la donna - ma vorrei che la scuola funzionasse correttamente. Nella situazione che si è venuta a creare è invece impossibile lavorare". Su di lei, come prevedibile, si sono riversate le polemiche di chi considera la sua protesta lesa maestà contro i principi dello ius soli ("chi nasce in Italia è italiano").
E invece bisognerebbe fermarsi ad ascoltare le parole di Rosaria. E riflettere. Intervistata ieri mattina ad Agorà su Rai3, la donna ha cercato di spiegare il disagio suo e di sua figlia nel vivere ghettizzata in una classe multiculturale. "Erano tutti di razze diverse - dice - rumeni, marocchini, turchi, filippini, cinesi, portoricani. Lei era l'unica italiana e veniva emarginata dagli altri bambini". Invece di ascoltare le sue ragioni, la conduttrice si concentra su un termine (razza) il cui solo suono fa accapponare la pelle ai buonisti. Non è però questo il punto. Il turbamento di Rosaria è reale. È il malessere di una mamma la cui figlia "alla fine veniva esclusa, perché quando faceva ricreazione lei era l'unica che si doveva integrare in mezzo agli altri bimbi stranieri. Ma noi viviamo in Italia...".
Le parole della madre smontano lo ius soli più di quanto non possano fare i numeri traballanti al Senato. Non sono i marmocchi il grattacapo, ma le famiglie in cui vivono. Che il più delle volte continuano a far crescere i figli secondo la loro cultura, senza cercare vera integrazione. "Il mio problema non sono i bambini - spiega la donna - perché tutti sono uguali. Il problema sono i genitori e come li educano. Mia figlia aveva invitato molti compagni a casa per fare i compiti insieme, solo che è sempre stato un 'no' continuo perché lei non era della loro stessa religione. Noi da piccoli abbiamo fatto i compiti con altri amici di scuola, a lei invece le era proibito perché è cattolica". "Era ghettizzata?", chiede la conduttrice. "Esatto, gli unici amici che poteva farsi erano quelli del catechismo".
Minoranza. È questa l'unica parola capace di descrivere ciò che ha vissuto la bimba modenese. Sentirsi minoranza in casa propria e rischiare pure di rimetterci in termine di formazione. "Alla fine della prima avevano iniziato a scrivere in corsivo e ora sono tornati a scrivere in corsivo maiuscolo", fa notare infatti la donna. "E quest'anno si è aggiunto un bimbo che non sa parlare la lingua italiana".
Subito dopo le proteste scatenate sui giornali, Rosaria ha ottenuto dal provveditorato il cambio scuola della figlia. Anche per lei è una sconfitta, visto che alla fine del primo anno era stata l'unica madre (su 5) a rimanere in quella classe.
"Vorremmo però che la scuola fosse un posto dove davvero si pratica l’integrazione - spiega con la chiarezza di chi ragiona senza preconcetti - Una classe concepita in questo modo significa non avere minimamente presente quello che succede tra i nostri ragazzi. Non c'è integrazione perché al di fuori della scuola nessuno si viene ad integrare con mia figlia".- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
- sabato, domenica e festivi dalle ore 10:00 alle ore 18:00.