Università, oltre ai soldi ridatele un'identità

Università, oltre ai soldi ridatele un'identità

Fioramonti se n'è andato, forse non solo per i fondi tagliati, ma il suo successore non s'illuda di avere più fortuna o di apparire talmente convincente da invertire la corrente. Quella che, dai tempi della crisi del 2008 e dell'austerità, ha tagliato pesantemente i fondi, all'università in particolare. Un'istituzione fondamentale per la tenuta sociale e civile della nazione, e di cui nessuno più si interessa, anche se ogni governo, prima di cominciare, la dichiara essere al centro dei suoi interessi, salvo poi ingaggiare un dietrofront a cospetto del tabù del vincolo del 3%. Non facciamoci tuttavia abbagliare dal miraggio della spesa pubblica. Non sarebbe un'eventuale, e a oggi improbabile, riapertura dei cordoni della borsa a ridare un senso all'università, e a salvarla. Perché la crisi che la investe è assai più profonda e radicale, riguarda la sua identità, oggi pressoché assente o invisibile. Il modello su cui furono costruite le università europee affonda nella Germania del XIX secolo: fu lì, sulla scorta dell'idealismo tedesco di Kant, Fichte e Hegel, che prese forma l'università moderna, luogo di creazione della classe dirigente e al tempo stesso di crescita dell'identità nazionale, un modello poi esteso agli atenei francesi, anglosassoni e a quelli, tra i più antichi del mondo, del nostro paese. Non a caso gli architetti dell'università italiana dopo l'Unità, prima Francesco De Sanctis poi Giovanni Gentile, si ispirarono direttamente all'esempio germanico che, adeguatamente impiantato, creò un'università italiana, di eccellenza mondiale, per molto tempo capace di adempiere alla sua funzione: formare classe dirigente e fare crescere, in senso spirituale prima ancora che materiale, la nazione. Non sappiamo se con gli anni Settanta o più probabilmente con le riforme verticistiche e giacobine degli anni dell'Ulivo, ispirate a criteri di modernizzazione mercatista (per dirla con Giulio Tremonti): sta di fatto che quella università, già indebolita, è stata uccisa in nome di un'idea di università «all'americana» che proprio negli stessi anni stava andando in crisi. Nel momento in cui i governi del centrosinistra attuavano il processo di cessione della sovranità economica, fecero lo stesso con la sovranità del sapere, distruggendo la ricchezza del modello nazionale di università. E siccome Berlinguer e i suoi emuli non erano esattamente delle menti come Giovanni Gentile, ne è sortita una creatura fragile, senza identità e senza missione, ispirata a criteri contabili ed economicistici, e soprattutto investita da una valanga quasi sovietica di norme, di controlli, di burocrazia. A vent'anni dal varo della riforma Berlinguer, oggi se ne può decretare serenamente il più totale fallimento. Voleva un'università che colmasse il gap con il mondo del lavoro (come se fosse questa la vera funzione degli atenei) anche a costo di ridurre la preparazione media: ha finito per deprimere il sapere, senza però consentire ai laureati di trovare un posto di lavoro consono, o più rapidamente di prima. Quanto al reclutamento dei docenti, esso non è più trasparente di un tempo (anzi) in compenso l'età media si è allungata, rispetto ai tempi pre Berlinguer: cosi a dominare oggi è una sorta di geronto-burocrazia, quasi del tutto autoreferenziale, che non incide per nulla sulla vita della nazione.

Non sappiamo se l'università si salverà con un'ennesima riforma che cancelli il vulnus originale della Berlinguer; anzi ne siamo un po' scettici. Di certo non la farà rinascere neppure un fiume di denaro, che del resto non arriverà mai.

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