«Non vogliamo compassione. Non vogliamo pena. Non chiediamo la libertà, né di andarcene in vacanza». Così Miranda Ratti Dell’Utri, la moglie dell’ex senatore azzurro Marcello Dell’Utri, torna a invocare giustizia per suo marito alla vigilia dell’udienza che deciderà se la Suprema Carta vale anche per l’inventore di Forza Italia o meno. «Il diritto alla salute è previsto dalla Costituzione - dice - vorremmo solo che venisse applicato».
Dell’Utri si trova nel carcere di Rebibbia dove sta scontando una condanna a 7 anni per concorso esterno in associazione mafiosa. È in cella nonostante le condizioni di salute precarie, il diabete e i problemi al cuore ma, soprattutto, nonostante quel tumore maligno alla prostata. La scoperta risale al mese di luglio, ci sono voluti sei mesi solo per diagnosticarlo e, da allora, ancora non ha iniziato la radioterapia. Perché in carcere è tutto difficile. Perché in carcere e di carcere si muore.
Lo scorso 5 dicembre il Tribunale di sorveglianza di Roma rigetta l’istanza di sospensione della pena. Persino i consulenti della Procura generale si sono espressi per l’incompatibilità tra le condizioni cliniche dell’ex senatore e lo stato detentivo, ma il pg Pietro Giordano dà parere negativo e dell’Utri resta dentro. Gli viene comunque riconosciuto il dritto di curarsi «in vinculis»: o a livello ambulatoriale o attraverso un ricovero ospedaliero con piantonamento. Le prescrizioni, però, rimangono lettera morta e per l’ex parlamentare inizia un’odissea.
Il 21 dicembre interviene Mauro Palma, Garante nazionale dei diritti dei detenuti, e scrive al presidente del Tribunale di sorveglianza chiedendogli se quanto disposto «è effettivamente eseguibile». Nelle settimane successive si scopre che nessuna delle soluzioni prospettate è praticabile. L’ipotesi ambulatoriale, come ricostruisce l’avvocato Simona Filippi, non viene avallata né dall’amministrazione penitenziaria né dai medici del carcere. Salta anche la chance del ricovero in ospedale perché la radioterapia è un tipo di cura che viene praticata solo a livello ambulatoriale. Forse può essere trasferito in un centro protetto all’interno di un ospedale. Ma anche stavolta è un vicolo cieco. Sono strutture pensate per brevi periodi di degenza, sono poche, troppo affollate e non adeguate ad una persona cardiopatica. Il tempo passa e si arriva alla fine di gennaio, in mano solo un pugno di mosche e tanta rabbia per il tempo, prezioso, che si sta perdendo.
L’altro legale di dell’Utri, Alessandro De Federicis, è stufo: «Sembra un po’ il gioco dell’oca quando una casella si riempie si torna a quella precedente». La malattia invece avanza. Venerdì alle 9 e 30, «nel sacro contraddittorio della parti», il verdetto sarà definitivo e sarà pubblico per volere dello stesso Dell’Utri che parteciperà in video conferenza. Sua moglie lo ha incontrato ieri mattina, «lui non ha molta fiducia nella giustizia però spera che ci sia qualcuno che gli riconosca il diritto di curarsi». Lei, invece, è fiduciosa. Perché «la speranza è l’ultima a morire».
E perché non si rassegna a vivere in un Paese dove la giustizia non è giusta e in uno Stato che non è uno Stato di diritto.Giorgio Gaber cantava: «Io non mi sento italiano ma per fortuna o purtroppo lo sono». Ecco, commenta Miranda dell’Utri, «questo è uno dei casi in cui bisognerebbe dire purtroppo».
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