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Vera Čáslavská, l’atleta che sfidò il comunismo

La storia della campionessa cecoslovacca che portò la sua dissidenza anti-sovietica sul podio olimpico. Un gesto di cui si è persa memoria che oggi torna più attuale che mai

Vera Čáslavská, l’atleta che sfidò il comunismo

È bastato un gesto, non guardare la bandiera, quella sovietica, su un podio olimpico troppo stretto. Il suo inferno comincia da lì, con un oro olimpico al petto. Věra Čáslavská, atleta cecoslovacca classe 1942, ha tutto: bellezza, popolarità e talento. È il talento delle predestinate, di chi sa esattamente quale posto occupare nel mondo. Quello di Věra è sulla “vetta dell’Olimpo”. È la ginnasta dei record individuali e pensi che niente e nessuno possa metterla all’angolo. Věra è travolgente. Non si accontenta di vincere, stravince. Nel 1968 ha un palmarès da campionessa e ha appena sposato il mezzofondista cecoslovacco Josef Odloži. È all’apice della carriera e della realizzazione personale quando la ruota della sua vita inizia improvvisamente a girare al contrario. Věra lo ricorderà così il suo punto di non ritorno: “Dopo aver raggiunto la vetta dell’Olimpo, non sono scesa per la strada più facile. È stato un percorso pieno di rocce, gole e pozzi profondissimi”.

A sconvolgere i piani di un’esistenza fortunata è una forza chiamata storia. Věra è già una star della ginnastica. Con tre ori e un argento nel concorso a squadre, le Olimpiadi di Tokyo sono state un successo ed è favorita anche a quelle che si disputeranno a Città del Messico. Nel frattempo però il suo Paese, la Cecoslovacchia, bussa alle porte della grande storia, liberandosi fugacemente dall’influenza sovietica. Così fugacemente che quella parentesi prenderà il nome di una stagione: la “Primavera di Praga”. Sette mesi in tutto. Věra, all’epoca ventiseienne, intravede un’alternativa di libertà e diritti per cui lottare. Anche lei, nel giugno del 1968, firma il “Manifesto delle duemila parole” dello scrittore Ludvík Vaculík, in aperto dissenso con l’ala conservatrice del Partito comunista che ha smarrito la via del socialismo. Quella firma le costerà quasi la partecipazione alle Olimpiadi di Città del Messico.

Quando i carri armati sovietici invadono Praga, Věra è ormai considerata una dissidente. È costretta a nascondersi nei boschi della Moravia per sfuggire a ritorsioni e prigionia. “Rimasi completamente isolata per tre settimane”, ricorderà in un colloquio con il Los Angeles Times molti anni più tardi. I Giochi messicani a questo punto sembrano sempre più lontani ma lei non demorde. È sicura che la sua buona stella sia ancora lì a proteggerla. Si allena come può e non è facile. La sua trave è un tronco d’albero, la sua pedana un prato. Mentre colleghe e rivali sono già Oltreoceano ad acclimatarsi, lei spala carbone e solleva sacchi di patate per indurirsi le mani e rafforzare le braccia. Non è più solo questione di sport. Věra ha una missione: deve andare in Messico “a sputare sangue per battere gli atleti che rappresentavano gli invasori”. La determinazione è tanta che riesce a partire.

Città del Messico, 25 ottobre del 1968. Věra è in gara. È subito oro nel volteggio e nelle parallele ma alla trave viene scavalcata dalla ginnasta leningradese Natalia Kucinskaja. Il verdetto è ingiusto. “Checa, Checa, ràa ràa ràa”, urla la folla in segno di solidarietà. Il Messico la accoglie a braccia aperte e lei si sdebita esibendosi sulle note del “ballo del sombrero” nella prova corpo libero. L’oro stavolta deve essere suo. Doveva, perché anche qui il risultato viene clamorosamente influenzato. È pari merito con la sovietica Larisa Petrik. Le due si ritrovano a dividere il gradino più alto del podio. In quel momento Věra fa qualcosa che le cambierà per sempre la vita. Quando viene issata la bandiera con la falce e martello e le note dell’inno sovietico iniziano a risuonare, lei rotea il capo verso destra e distoglie lo sguardo. È il gran rifiuto. È la fine della sua carriera. L’unica ginnasta, sia a livello maschile che femminile, ad aver conquistato l’oro olimpico in ogni specialità individuale scompare dalla scena.

Gli anni successivi li passa ai margini. Per un periodo si arrangia persino facendo le pulizie. “Gli anni peggiori sono quelli dell’oblio, perché i regimi dell’Est più che a togliere la vita degli oppositori miravano a cancellarne l’identità di persone, a piegarli e rimetterli, sconfitti, dentro il loro sistema”, ricorda Riccardo Gazzaniga, che l’ha tratteggiata nel suo “Abbiamo toccato le stelle” (ed. Rizzoli), una bella raccolta di racconti di campionesse e campioni che hanno segnato la storia. Čáslavská viene letteralmente cancellata per vent’anni, eppure nelle sue parole – continua lo scrittore – non c’è mai traccia di pentimento, nemmeno nei momenti peggiori. Direi che ritenesse la sua scelta ineluttabile”. Lei stessa dirà di sé: Se avessi rinnegato quel Manifesto e quella speranza, la gente che credeva nella libertà avrebbe perduto fiducia e coraggio. Volevo che conservassero almeno la speranza”.

La riabilitazione arriva con la caduta del Muro. Čáslavská diventa un’eroina nazionale: il neopresidente Václav Havel la nomina consigliera e per un breve periodo ricopre la presidenza del Comitato olimpico ceco. Nel 1993 però il destino la mette di fronte a nuovi dolori. “La Čáslavská – ricorda Gazzaniga – è coinvolta in una tragedia terribile. Suo figlio uccide il padre, ex marito di Věra, in una rissa degenerata. Lei sprofonda nella depressione”. Věra a questo punto inizia a sentirsi vittima di una specie di maledizione. Quando guardavo la vetta da cui ero caduta mi chiedevo se la vita non mi avesse regalato tanti bei panorami, cieli sereni ed emozioni, solo per il gusto di potermeli strappare uno ad uno”. Dai pensieri oscuri e nichilisti emerge a fatica, aggrappandosi a ciò che più ama: la ginnastica. Ci insegna a cadere in modo tale – diceva – che anche quando non crediamo di avere le energie per andare avanti riusciamo comunque a rialzarci”.

Dopo la sua scomparsa, avvenuta il 30 agosto 2016, è entrata a pieno titolo nella Hall of Fame della ginnastica mondiale, ma del suo gesto si è quasi persa memoria. Quando si parla delle Olimpiadi di Città del Messico la mente corre subito a Tommie Smith e John Carlos sul podio dei 200 metri: scalzi, con il capo chino e il pugno guantato di nero sollevato al cielo. Come mai nessuno si ricorda di Věra? In parte la sua protesta viene schiacciata da quel pugno così iconico, in parte – ragiona l’autore – perché Vera è donna: le storie di donne, anche nello sport, anche nel coraggio, devono fare il doppio della fatica per emergere e diventare patrimonio comune. C’è una sorta di maschilismo della gloria e anche della memoria. Nello sport spesso è stato molto forte”.

Sarebbe prezioso recuperare il suo coraggio. Oggi che vecchi venti di guerra scuotono il presente la sua testimonianza è più viva e attuale che mai. Věra ci ricorda quanto è complicato lottare contro una dittatura che riduce tutti al silenzio. Quanto è alto il prezzo da pagare per chi fa sentire la sua voce”, spiega Gazzaniga. Quella voce parla ancora, dalla storia.

Forse è ingiusto pretendere da una sportiva tanto coraggio anche fuori dalla pedana. Ma – conclude – quando una grande atleta si dimostra una grande persona, attenta al mondo e agli altri, la medaglia che conquista assume un peso unico”.

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