CROVI L’arte di narrare com’è cambiata Milano

Lo scrittore festeggia 73 anni con due nuovi libri: le poesie sulla sua «vita sopravvissuta» e un romanzo sul potere perverso dei media

CROVI L’arte di narrare com’è cambiata Milano

Raffaele Crovi oggi compie 73 anni: 18 aprile, un destino per un intellettuale che ha militato più di mezza vita nella Dc. L’anno era il 1934, e il luogo era Calderara di Paderno Dugnano, oggi hinterland allora profonda campagna. I suoi genitori, venditori ambulanti, erano emigrati in Lombardia da Cola, paesello in provincia di Reggio Emilia, dove Raffaele Crovi trascorse l’infanzia e un pezzo di adolescenza e dove ancora oggi possiede una casa, la biblioteca e - ti sia lunga la vita - una tomba. Per il resto, da quando a 18 anni ci tornò per iscriversi all’università, Milano non l’ha più lasciata. Qui si è sposato, qui ha iniziato a lavorare e qui continua a vivere tra molti amici, moltissimi libri e ancor più progetti.
«Quando arrivai a Milano, nel ’52, avevo nella testa i suoni del dialetto e gli odori della cucina lombarda, che mia madre si era portata dietro, sull’Appennino reggiano. Il risotto saltato allo zafferano - lo si conceda a uno scrittore - è la mia madeleine. Milano è stata la città dell’apprendistato della vita, dell’apprendistato politico, di quello culturale. A lavorare con i libri e per i libri, ho cominciato qui».
A scrivere, però, iniziò parecchio prima, a 11 anni, quando per competere con il compagno di banco che mostrava grandi doti di goleador ed era corteggiatissimo dalle coetanee, il piccolo Raffaele scese sul terreno della scrittura, componendo dei sonetti. Ed è forse per questo che da allora non crede all’ispirazione... Non si sa cosa ne è stato del suo compagno, di Crovi invece si sia che dal ’56 al ’60 ha lavorato per l’Einaudi con Elio Vittorini - «quando andavo a fare spesa al mercato con Gadda e Ginetta Varisco, la compagna di Vittorini, una cuoca straordinaria: ero spessissimo a cena da loro, nell’appartamento di viale Gorizia, affacciato sui Navigli, con Montale, l’architetto De Carlo, gli amici francesi di Elio: Jeanne Moreau, Marguerite Duras...» - che poi negli anni Sessanta è stato vicedirettore editoriale della Mondadori e nei Settanta responsabile dei programmi culturali della Rai a Milano; che è stato direttore editoriale della Rusconi e poi del gruppo Bompiani, che nell’84 ha fondato la casa editrice Camunia e che oggi è direttore letterario di Aragno. Nel frattempo, da vero ippogrifo della cultura, ha scritto dozzine di romanzi, raccolte poetiche, saggi, drammi, sceneggiature oltre a centinaia di “pezzi” per quotidiani e riviste... Solo in questi giorni escono contemporaneamente le poesie La vita sopravvissuta da Einaudi e - attualissimo j’accuse contro la perversione del potere dell’informazione - il romanzo Nerofumo da Mondadori. Già, i romanzi. Solo a questa città ne ha dedicati tre: «Il primo, il mio esordio, nel ’59, fu Carnevale a Milano, che racconta le avventure picaresche di un gruppo di giovani spaesati nell’incipiente benessere degli anni Cinquanta, tra boom e sboom, in una Milano post-Sironiana, la Milano delle fabbriche, dei gasometri, delle piccole trattorie, dei casini. Poi Ladro di ferragosto, dell’84, che attraverso la nevrosi di un intellettuale narcisista racconta la grande metropoli come spazio della solitudine, una Milano ferragostana, appunto: deserta, vuota, “dechirichiana”, quasi metafisica; e infine L’indagine di via Rapallo, del ’96, che ricostruendo la vita di un condominio racconta la Milano di oggi, quella dell’emarginazione, dello sfascio urbano, dell’alienazione, degli scontri sociali...». Dei cinesi in rivolta. «Guardi, io vivo qui, in zona Sempione, e forse qualcuno nel mio quartiere si sente espropriato di Chinatown, e anch’io subisco a volte il disagio di questa ressa multietnica, il disordine, la sporcizia, le piccole e grandi violenze. Però, avendo assistito in questi cinquant’anni alla trasformazione della città, prima “invasa” dagli emigrati del sud che parlavano pugliese e siciliano, oggi dagli extracomunitari che parlano slavo o africano, sono convinto che Milano rimanga ancora la città più vivibile, dove l’integrazione sociale è una realtà “viva”, dove c’è caos e movimento ma dove si può, alla fine, vivere bene, tutti insieme. C’è cambiamento, certo. Ma anche arricchimento reciproco tra culture diverse. Del resto, se c’è un valore nel quale credo, e che ho raccontato nei miei libri, è proprio quella della convivenza».
Oggi Raffaele Crovi non va più al mercato con Gadda e Ginetta Varisco a scegliere le verdure per i minestroni di cui andava ghiotto Montale, o le sarde per la pasta che gli cucinava Peppino Mazzullo, la voce di Topolino, ai tempi in cui faceva il producer televisivo. Ma, tra un libro da scrivere e uno da pubblicare, continua a bazzicare le botteghe del quartiere, a frequentare la parrocchia, a girare con i mezzi la sua città.

A parlare in dialetto con i milanesi e, in qualche modo, con tutti gli altri: cinesi, musulmani, maghrebini... «Di certo non mi sento a disagio. Mio padre, che aveva la pelle un po’ scura, quando girava con il suo carretto da ambulante per Milano, lo chiamavano “marocchino”...».

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