CRUDELE SÌ, CRUDELE NO

Tra gli studiosi di Cristoforo Colombo Dario G. Martini è uno dei più noti a livello internazionale. Tre prove a dimostrarlo: è stato, con Taviani, uno dei due soli italiani chiamati a compilare voci per «The Christopher Columbus Encyclopedia» edita a New York dalla Simon & Schuster; la Vallecchi - del cui comitato scientifico fa parte uno dei più autorevoli medioevisti viventi, Franco Cardini - gli ha affidato il recente volume «per collezionisti» sullo scopritore e infine la Rai International lo ha invitato a partecipare al dibattito in mondovisione su Colombo che va in onda proprio oggi, martedì alle 16 (ora italiana) da Saxa Rubra per l’America, l’Asia, l’Australia e l’Oceania. La trasmissione sarà poi ripresa per l’Europa e per l’Africa il 17 giugno prossimo da Rai due. Logico, dunque, che chiedessimo proprio a Martini un parere sul presunto «processo a Colombo» del quale si è parlato nei giorni scorsi. Ecco la sua risposta:
«La cosa che mi ha più sconcertato è il fatto che ci si sia richiamata ad una vicenda nota sin dai primi anni del sedicesimo secolo - quella del Colombo in catene, nel corso della sua terza vicenda oltreoceano - prospettandola adesso come una novità dalla quale sarebbe improvvisamente emersa la figura di uno scopritore non solo protervo, ma addirittura assassino, schiavista, smanioso d’oro da carpire agli indigeni e via di questo passo. Tutti i colombisti seri - anche lo stesso Taviani nel nome del quale si è tenuto il recente convegno a Genova - hanno smentito, con decisione l’ipotesi del Colombo santo e non hanno nascosto le talvolta anche gravi responsabilità del navigatore (prima, tra tutte, quella di ritenere che il fine che si proponeva giustificasse i mezzi necessari per conseguirlo), ma hanno pure rifiutato, con altrettanta decisione, il ritratto di un ammirglio addirittura assassino per vocazione e comunque avventuriero senza scrupoli. E a proposito dell’arresto di Colombo e dell’inchiesta (non processo) che lo precedette, hanno dimostrato abbondantemente le ragioni prevalentemente politiche, e in ogni modo non certo legate a preoccupazioni di carattere etico, che determinarono il momentaneo imprigionamento del genovese al quale - dopo il suo arrivo in catene a Cadice - i sovrani Isabella e Fernando chiesero scusa, dopo averlo fatto liberare. E di processi non si parlò più. Ma non è l’aver dimenticato queste verità il punto che mi lascia più che perplesso: il punto è che mentre a Valladolid si ascoltava Aldo Agosto, intento a documentare la sicura ligusticità degli avi di Colombo già dediti a pratiche di mare tra Bogliasco e Sori prima di salire momentaneamente in Val Fontanabuona - e mi chiedo, non si potevano presentare a Genova, anziché a Valladolid i centodieci nuovi documenti scoperti da Agosto?) a Genova, viceversa, si ospitava una docente spagnola (peraltro ammirata in altre occasioni) la cui relazione consentiva ai giornali - proprio nel giorno in cui si doveva celebrare il mezzo millennio esatto dalla scomparsa dell’Ammiraglio - di proporre titoli sulla sua criminalità. D’accordo che la Superba è spesso stata matrigna con i suoi figli, ma anche all’autolesionismo, a mio sommesso parere, dovrebbe esserci un limite. Infine devo dire - per inciso, anche se non è elegante autocitarsi - che nel programa colombiano in mondovisione, il direttore di “Sipario”, Mario Mattia Giorgetti, leggerà alcuni brani del mio ultimo testo sull’Ammigraglio, uscito nei giorni scorsi. In tale testo, come in molti dei miei precedenti, si precisano le molte colpe delle quali lo scopritore si è macchiato, ma si prospettano anche le giustificazioni ch’egli ne diede. Definirlo criminale per i suoi eccessi mi sembra incongruo come il ciondolino all’orecchio della luna nella “Crocifissione” di Albert Durer. Perché ricordo questo disegno che risale proprio all’età di Colombo? Perché José Saramago, nel suo “Il Vangelo secondo Gesù Cristo”, ne ha tratto pretesto per dirci che il Bene e il Male non esistono in se stessi, ciascuno di essi è solo l’assenza dell’altro.

Qualcosa di simile Colombo l’ha detto al figlio Diego, poco prima di morire, esortandolo a non credere che la sua apparente duplicità lo esimesse dal dovere di battersi con coraggio per trovare un varco utile a consentirgli di sopravvivere, se non altro nella meomoria degli uomini».

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