I giorni sulla Sierra Maestra non li ha mai rinnegati, ma sono i suoi ricordi «sbagliati». Carlos Franqui arriva vestito di lino bianco, cammina lento, con quello sguardo che percepisce in fretta tutto l’orizzonte e i baffi bianchi da vecchio signore del popolo. È arrivato a 86 anni con un grande vuoto nell’anima, un pezzo di isola caraibica che lui continua a sognare da lontano, con un grammo di nostalgia e una montagna di sensi di colpa. Cuba è una truffa, un cocktail sbagliato, che affoga la libertà in pessimo rum e in qualche succedaneo della Coca-Cola. Franqui non beve mai Cuba libre: «È una menzogna». Parla un italiano colto, lento, con un lieve accento ligure. «Era il ’63. Lascio Cuba con la mia famiglia. Pensavo di non tornare più a casa. Passo quasi un anno ad Albissola Marina, vicino a Genova. Mi sentivo in paradiso. Mi viene a trovare il mio amico Valerio Riva, con lui c’è Feltrinelli. Mi dicono: Fidel vuole scrivere il diario della Rivoluzione. Rispondo: e io che c’entro? Feltrinelli sorride e dice: devi scriverlo tu. Insomma, mi tocca fare il negro di Castro. L’accordo è: il 66 per cento a Fidel, il 33 a me. Torno a Cuba. Per fortuna quel libro non lo scriverò mai».
Franqui è il grande vecchio dei dissidenti cubani. L’uomo che più di tutti ha deluso il líder máximo. Era con Fidel sulla Sierra. Era il direttore della radio ribelle, il punto di riferimento dei giovani che sognavano una Cuba diversa, libera da Batista, dalla dittatura, dalle classe sociali rigide e dalla fame. È lui che dirige, dopo la conquista de L’Avana, il giornale della rivoluzione. È un intellettuale con contatti in tutto il mondo: Sartre, Picasso, García Márquez. Ma ben presto si accorge che la rivoluzione è una beffa. Fidel non è diverso da Batista, anzi la sua dittatura è ancora più totalitaria. Cominciano i massacri senza processo dei vecchi nemici e poi di tutti quelli che non sono d’accordo con il grande capo. La rivoluzione mangia i suoi figli. Franqui vede sparire i suoi amici, muore Camilo, il volto coraggioso della guerriglia, un’ombra troppo grande per Castro. Il Movimento 26 luglio, la resistenza cittadina, perde i suoi vertici. Huber Matos viene condannato a 20 anni di galera perché non condivide la svolta comunista. E anche Carlos capisce che è il momento di andare via. Scappa come un ladro un giorno del 1968. Non vedrà più Cuba. «Sono stato un uomo fortunato. Sono partito da un paesino dell’oriente cubano, tra galli, palme altissime, celibas gigantesche e riti santeri. Ho studiato e scritto libri. Ho una famiglia bellissima e sono invecchiato bene. Il mio dolore è che sono uno di quelli che ha distrutto la sua patria. Non me lo perdonerò mai».
Castro ormai è un ectoplasma. E dicono che Raùl sarà il Gorbaciov di Cuba.
«Fesserie. Raùl segue la lezione cinese. Semina qui e là qualche libertà economica per sopravvivere. Ora a Cuba si può possedere una casa, le auto, i telefonini, il computer. Peccato che nessuno abbia i soldi per acquistare tutte queste cose. Castro ha tolto il respiro a un popolo e a una terra. La Cuba di Fidel è un bosco di marabù, un arbusto con radici profondissime, quasi impossibili da sradicare. I contadini ci combattono senza speranza. Perfino gli animali fuggono da questi boschi».
Che tipo è Raùl Castro?
«È uno che ha studiato da sergente nelle caserme del vecchio regime. Sulla Sierra lo chiamavamo il casquito, recluta di Batista. Non è mai cambiato».
Perché lascio Cuba?
«Avevo fatto la rivoluzione per cambiare il mondo. Mi sono accorto di aver combattuto solo per soddisfare la megalomania di Castro. Nel ’63 volevo già andarmene. Fidel mi licenziò dal giornale. Ma la mia redazione era una grande famiglia. Scioperarono contro il dittatore e lui fu costretto a riprendermi».
Qual è l’ultima cosa che le ha detto Castro?
«Carlos sei un uomo fortunato. Sei un uomo libero, non schiavo come me del potere. So che sarai sempre fedele alla rivoluzione. Non deludermi. Qui puoi scrivere. Fare tutto quello che vuoi».
E lei?
«Il giorno dopo feci le valigie. Lui la prese male. Cancellò il mio volto da tutte le foto ufficiali. Nessuno osò più pronunciare il mio nome in sua presenza. Distrusse il museo di arte moderna che avevo fondato. Cancellò le mura della mia casa».
Lei andò via un anno dopo la morte di Che Guevara. Da quanto tempo non lo vedeva?
«L’ultima volta ci siamo visti a Parigi. Era il 1965. Il Che era ormai un uomo solo. In guerra con il mondo. Era già pronto per il suo ultimo azzardo in Bolivia. Castro lo lasciò andare con quattro ragazzotti, mentre a Cuba c’era il cuore dei rivoluzionari di professione. Voleva la sua morte. E l’ha avuta. Ernesto mi mandò a chiamare. Mi mise un braccio sulla spalla e sussurrò: “Con Fidel né divorzio né matrimonio”».
Un consiglio che non ha ascoltato?
«Non fanno per me le mezze misure. Il rivoluzionario Guevara, spietato e fanatico, è diventato un mito del consumismo, con il suo volto stampato sulle magliette. Una beffa».
Le manca Castro?
«Mi manca?».
Eravate amici.
«Castro ha avuto un solo amico: Fidel.
Tornerà mai a Cuba?
«Facciamo una scommessa. Tra un anno il regime cadrà. Ho 86 anni e non so quanto tempo mi resta da vivere. Ma io tra un anno tornerò a casa: vivo o morto».
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