Caffè scorretto. L’Italia "fattura" oltre 5,2 miliardi. Ma le crisi globali e la tagliola prezzi affossano la qualità

Siamo al 13º posto per consumo. E non sempre beviamo il più buono

Caffè scorretto. L’Italia "fattura" oltre 5,2 miliardi. Ma le crisi globali e la tagliola prezzi affossano la qualità
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L'italiano medio, ammesso che esista, ha poche certezze.

Con una di queste ama svegliarsi: il caffè. Per lui è un affare italiano, il solo caffè degno di essere chiamato così è un espresso servito da un bar di una nostra città (più vicino si trovi a Napoli e meglio è) e tutto il resto è una faccenda di barbari ineducabili. Punto.
Il mondo ci ha concesso l’onore di adottare la nostra lingua del caffè, come secoli fa avvenne con la musica: e quindi espresso, macchiato, cappuccino, latte eccetera (e pazienza per certe pronunce irricevibili). Ma l’Italia non è il Paese che beve più caffè al mondo: in questa speciale classifica siamo al 13° posto con 5,9 kg pro capite (dati dell’Ico, l’International coffee organization), superati da tutti i Paesi scandinavi, dai Paesi Bassi, dalla Germania, dalla Svizzera, dal Belgio, dal Lussemburgo, dal Canada, dall’Austria e anche dalla Bosnia-Erzegovina.

In Italia il caffè vale 5,2 miliardi annui, di cui 2,9 derivano dal mercato interno (consumiamo 95 milioni di tazzine al giorno, per lo più a casa, con moka e capsule) e 2,3 dalle esportazioni, che sono il vero fattore di crescita (nel 2023 +6,8 per cento) visto che il consumo domestico è piuttosto rigido.

L’Italia resta uno degli attori principali del business globale del caffè (che vale all’incirca 250 miliardi di dollari), dominato da multinazionali comr Nestlé, Starbucks e JAB Holdin Company. Le due aziende italiane di maggior rilievo internazionale sono Lavazza e illy, ma è una leadership più morale che finanziaria, con forte penetrazione in segmenti premium e nella ristorazione. La nostra tradizione è indubbia, ma non sempre la materia prima che finisce nella tazzina con cui inauguriamo la nostra giornata è di alta qualità. Detto che il caffè di più alto livello è della specie Arabica, che con la più rude Robusta fa la parte del leone tra le centinaia di dofferenti Coffea, in Italia l’espresso è fatto dalla gran parte dei bar con miscele delle due specie che i baristi spesso non scelgono e non conoscono (e quindi non sanno raccontare). Il sistema distributivo lega infatti i bar, soprattutto i più piccoli, mani e piedi a torrefazioni in un complesso sistema di regali e agevolazioni. È un sistema in cui l’unico driver alla fine è il prezzo, anche a causa del fatto che in Italia non è socialmente accettato che la tazzina superi di molto l’euro. E in un mercato globale ricco di incertezze climatiche e geopolitiche che fanno fluttuare molto i prezzi, spesso per non far impennare il costo dell’espresso si rinuncia alla qualità del caffè.

Insomma tra vincoli economici e sociali e tradizioni immarcescibili, la qualità spesso rimane sul fondo della tazzina. A una piccola schiera di baristi di solito giovani, consapevoli, appassionati, colti e ambiziosi, aperti a nuove tecniche ed estrazioni, si affianca una larga maggioranza di colleghi sciatti, che compiono gesti meccanici davanti alla macchina per sfornare centinaia di tazzine al giorno all’insegna del «si è sempre fatto così». C’è scarsa attenzione per azioni banali come la pulitura della macchina e dei filtri, una corretta macinatura, il filtraggio dell’acqua, la pressatura, l’estrazione. Così in tazzina arriva una bevanda priva di ogni pregio organolettico, senza i profumi acidi ed eleganti che un caffè ben trattato dovrebbe possedere, con sentori troppo amari, bruciati, sporchi.

Del resto noi il caffè lo abbiamo sempre bevuto così, in fondo per noi conta il gesto, la pausa, il valore sociale della pausa caffè, al massimo il valore stimolante della bevanda. Tutto lecito, tutto legittimo. Basta non pensare di avere nella tazzina il migliore caffè del mondo.

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