Culatello, il principe dei salumi

Andrea Grignaffini

Si svolge il volano e accelera la lama: parte il taglio. Il rosso è intensissimo intarsiato da candide venature biancomarmoree che si diramano da una noce di grasso immacolato. Il profumo delicatamente floreale può articolarsi con aromi di sottobosco secco e micotico. La persistenza è lunghissima. Il culatello si presenta così: irresistibile. Il re degli insaccati (una Dop compresa tra i comuni parmensi di Polesine Parmense, Zibello, Soragna, Roccabianca, San Secondo, Sissa e Colorno) è ottenuto da un fascio di muscoli della parte posteriore e interna della coscia del maiale e «condito», previa un’accurata rifilatura, con una miscela di sale, pepe e aglio (dosati col bilancino degli speziali...), quindi viene inserito in una vescica animale, accuratamente legato con lo spago e stagionato in cantina (di quelle bassaiole, umide e scure) per un periodo minimo - ma proprio minimo - di almeno undici mesi.
Dopo la corretta conservazione e stagionatura in cantina, occorrerà compiere alcune necessarie operazioni di pulitura: tolto lo spago si asporta la vescica che lo ricopre quindi, dopo averlo sciacquato, spazzolandolo accuratamente sotto l’acqua corrente, si asciuga e si avvolge in un telo bagnato con vino bianco secco non aromatico (per i puristi solo acqua) avendo cura di inumidire maggiormente la parte più magra che è anche la meno morbida; non resta quindi che rifilare accuratamente il grasso esterno. Per degustarlo è consigliabile l’accompagnamento con un pane casereccio (in zona di produzione con la Miseria: miccone con crosta dorata e mollica bianca e soffice) e l’abbinamento con un grande spumante nella versione rosé o con un vinello rosso autoctono senza pretese (dalla venatura amabile) come la Fortana.
Lo sa bene Massimo Spigaroli, presidente del Consorzio di tutela. Una storia, la sua che parte da lontano. Siamo nella Bassa Parmense, sulle rive del Po, il grande fiume dove nonno Marcello traghettava i passeggeri tra Parmense e Cremonese e approfittava di questo lento andirivieni per vendere salumi interi. Da qui la necessità di costruire a fianco l’imbarcadero, tra i pioppeti, una piccola baracca dove servire ottimi salumi affettati, pane, vino e altre sfiziosità tipiche della zona. La clientela cominciò ad aumentare e nella stagione estiva si iniziò a ballare e a stare in allegra compagnia. Le richieste di altre portate si fecero sempre più pressanti e allora zia Emilia passò alle fritture soprattutto dei pesci del grande fiume: tinche, carpe, anguille, pesciolini... Nascerà così Al Cavallino Bianco. Dopo la guerra e l’alluvione del Po del 1951, si passò alla ricostruzione grazie ai fratelli Luciano e Massimo.
La ricetta è apparentemente semplice: materia prima eccellente e tecniche che la valorizzazione visto che la prima non è facile da reperire si pensa di prodursela in casa. Comincia quindi la ricerca dei maiali che erano cresciuti al tempo della sua infanzia e che nel frattempo erano quasi estinti. Già perché ora si allevavano solo maiali bianchi e magri, come richiede il mercato. Così viaggiando in tutta Italia e in Spagna, Massimo riuscirà a recuperare dodici importanti razze suine, fra le quali la famosa e imperdibile razza nera, riavviando l’allevamento per riprendere la produzione di ottimi salumi.
Negli anni Novanta la famiglia si espande e acquista l’Antica Corte Pallavicina, un antico castello del Quattrocento trasformato poi nel Settecento in tenuta agricola fortificata con muri spessi, cantine in pietra molto profonde e, cosa essenziale per la stagionatura dei salumi, vicinissima al fiume. Infatti, il pregio di questi territori è proprio la loro vicinanza al Po: l’umidità, la nebbia fittissima d’inverno, l’afa d’estate, sono gli ingredienti principi per ottenere salumi insuperabili. Qui non esistono additivi chimici o tecnologie avanzate. Tutto avviene come un tempo, in modo assolutamente naturale secondo il ciclo stagionale, aprendo e chiudendo le finestre seguendo clima, temperatura, umidità e nebbia, spostando gli insaccati da un ambiente all’altro secondo necessità. La tecnologia esiste solo per seguire le norme igieniche dei locali, per il resto esiste solo la natura con le sue muffe naturali.
E poi il resto. Il salame gentile dal budello lungo, composto da due strati di impasto con in mezzo un leggero velo di grasso che lo mantiene morbido e gli permette una stagionatura più lunga tanto da essere gustato a fine estate. Lo strolghino, ottenuto da carni magre macinate, insaccato in budelli piccoli per una breve stagionatura. La mariola, dalla grossa forma bitorzoluta con un impasto leggermente grasso. Il cresponetto, con impasto tagliato a punta di coltello e insaccato in budelli grassi. Il verdiano, con carni scelte di maiale, una punta d’aglio e poco sale. Poi il lombo con pochi grassi, la pancetta arrotolata e stagionata dieci mesi, il lardo ricavato dalla gola del maiale e il lardo conciato con erbe, spezie e bacche tritate. Non da meno i salumi cotti come la spalla cotta con alloro, spezie e vino bianco, da gustare preferibilmente calda, e anche il cotechino, la mariola, il prete.
Non basta.

I fratelli Spigaroli hanno ricercato anche antiche e pregiate razze quasi estinte: mucche, galline, anatre mute, tacchini che hanno ritrovato a fatica ripristinandone l’allevamento. E alcuni pavoni che tengono per la loro splendida bellezza. Ma questa è un’altra storia...

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