La culla dei bimbi di nessuno

Li abbandonavano con la metà di una immaginetta per poterli ritrovare. Dopo 140 anni tornano i «figli della Madonna»

da Milano

«L’infanzia è una scoperta progressiva della storia». La frase del professor Edoardo Bressan basta da sola a catapultare in epoche buie. Secoli densi di carestie, guerre ed epidemie, in cui la durezza delle condizioni di vita pesava, con la spietatezza della legge del più forte, soprattutto sui più deboli. Un passato in cui il diritto di un bambino a nascere e crescere non solo non era codificato in nessuna convenzione internazionale, ma non era ancora scritto nemmeno nel cuore degli uomini. Al massimo, al diritto si sostituiva la carità. «A Milano - spiega Bressan, docente di Storia contemporanea all’Università di Macerata - già alla fine dell’VIII secolo, per volontà dell’Arciprete Dateo nascono forme di assistenza all’infanzia abbandonata». Ma bisognerà aspettare secoli perché il fenomeno trovi risposte più «istituzionali».
Come la «ruota degli esposti». La prima, è quella dello Spedale degli Innocenti di Firenze. Nell’edificio del Brunelleschi inaugurato nel 1445, i bimbi venivano deposti in una «pila», un’acquasantiera posta alla destra del loggiato. Nel ’600 sarà sostituita da una vera e propria ruota, una pietra girevole che consentiva di deporre, non visti, il neonato all’esterno dello Spedale. Facendo girare la ruota, il bimbo veniva accolto all’interno. In quegli anni, sorgono ruote in tutta Italia. Vi vengono abbandonati anche bimbi di 6-7 anni, unti di grasso per farli entrare a forza nell’angusta culla di pietra. I «figli della Madonna», li chiamano a Napoli. I bimbi più piccoli, se non si trova una balia che li allatti, non sempre sopravvivono. Ma almeno c’è una speranza.
«La prima molla dell’abbandono - dice Bressan - era la volontà di dare un futuro a figli nati fuori dal matrimonio che, bollati come illegali, sarebbero altrimenti stati emarginati. Ma non solo: altre volte non c’erano i mezzi per mantenere un figlio in più». A volte c’è la speranza di un ricongiungimento futuro. È affidata ai «segni dell’esposizione»: immaginette strappate a metà, ciondoli, fazzoletti. Oggetti, insomma, che ricomposti con la metà mancante avrebbe consentito l’identificazione del figlio anche dopo molti anni.
A partire dalla seconda metà del ’700 c’è un boom di bimbi abbandonati. La fuga dalle campagne verso le città significa perdere il tradizionale sostegno della famiglia allargata. «Nelle condizioni sanitarie e con le conoscenze mediche di allora - sottolinea il professore - ogni emergenza poteva condurre intere famiglie alla catastrofe. E spesso si sacrificava un figlio per salvare gli altri. Soprattutto in occasione di eventi imprevisti». È il caso delle carestie, come quella del 1815-17. «Al terzo anno di carenza di cibo - prosegue Bressan - il numero dei bimbi abbandonati in Lombardia sale a 3.101. Nel 1801 erano meno di 2.000. E trent’anni prima, nel 1771, erano 505».
«Man mano che si sviluppa una legislazione che tutela i genitori che non riconoscono i figli - aggiunge il docente - cresce un dibattito che porta all’abolizione delle ruote, a partire dagli anni 70 dell’800. Per l’opinione pubblica incentivavano all’abbandono». Cosa ci ha fatto cambiare idea? Il ritorno delle ruote degli esposti, che la cronaca registra in questi giorni, ha il sapore di un ricorso storico nella secolare lotta per i diritti dell’infanzia. C’è forse una nuova emergenza, come la carestia del 1815? Una risposta arriva dal luogo in cui la ruota è nata. «Non sono disponibili dati statistici che provino un picco di abbandoni - dice Alessandra Maggi -. L’Istat nel ’97 ha smesso di raccogliere i dati. Stando a quel che succede negli ospedali, il 99% dei figli naturali viene riconosciuto da almeno un genitore. Resta quell’1%: sono 3-400 bambini all’anno». A destare l’allarme sono stati soprattutto una serie di casi drammatici, bimbi lasciati nei cassonetti, in un cestino della spazzatura a Prato, un parcheggio in Lombardia. La maggior parte sono stranieri. «Bisogna pensare alle clandestine - dice Maggi - che non conoscono la legge italiana, o non sono certe delle nostre garanzie.

E in generale a tutte le donne emarginate, escluse dai canali di comunicazione, sole di fronte a una circostanza difficile. Per tutte loro ci vuole una risposta». L’antica ruota, aggiornata tecnologicamente, è diventata la moderna risposta.

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