Questa storia parla della generazione perduta. No, non la lost generation di Hemingway e Fitzgerald, non ci sono le illusioni sfumate della Belle Époque e corride alle cinque della sera, non c’è neppure una maledetta guerra mondiale, non ancora perlomeno. È solo la storia dei maschi bianchi americani che circa quindici anni fa si sono messi in testa di lavorare nel mondo delle professioni liberali o dell’industria culturale e sono stati cancellati dalle politiche di integrazione. Non erano neri, non erano donne, non erano omosessuali. Erano nipoti, figli e fratelli minori di un largo insieme di privilegiati e hanno pagato per tutti. Il racconto di tutto questo è di Jacob Savage, uno che ha vissuto il tagliafuori sulla sua pelle e si è consolato narrando il fenomeno, con testimonianze e numeri, su «Compact», una rivista non certo trumpiana, ma che si definisce liberal e socialdemocratica. La beffa è che a portare l’esperienza di Savage in Italia è uno della generazione, la generazione X, che lui ritiene responsabile della sua sfortuna. Si chiede venia.
C’è un momento, nella vita di certi mestieri, in cui capisci se entrerai davvero nella storia oppure resterai fuori a sentire le voci. Per Jacob Savage quel momento ha la forma ordinaria di una mail gentile. Poche righe, un tono quasi affettuoso, la scusa pronta: «Inizialmente pensavo di potervi coinvolgere, ma alla fine non è stato possibile». Non è un «non sei bravo». È peggio: è un «non puoi», che non riguarda la tua sceneggiatura, ma la tua faccia. Il tuo genere. La tua razza. Il tuo posto nel mondo. Quel posto che, fino al giorno prima, ti avevano raccontato essere invisibile davanti al merito. E invece, dal 2014 in poi, diventa una targhetta fluorescente appuntata sul petto. Jacob ci arriva come ci arrivano in molti: facendo lavori che non si raccontano alle cene. Quindici anni di bagarinaggio per pagare le bollette. Ripetizioni per i SAT. Los Angeles come una promessa che si consuma lentamente, a colpi di affitti e di «stiamo valutando ». Cinque anni in città, trentun anni, due progetti in cantiere, una migliore amica con cui scrive come si scrive quando si è giovani: con la sensazione che l’energia basti a spingere il mondo. Poi l’incontro. Il dirigente lo apprezza, lo dice davvero, e qui sta la crudeltà: la lode è sincera. Ma la writer’s room è piccola e sopra ci sono già troppi uomini bianchi. «Non possiamo avere una redazione composta solo da quelli come noi». Non ci sarà nessuna prossima stagione per lui.
Il racconto diventa interessante quando smette di cercare un colpevole facile e comincia a guardare la struttura: chi è rimasto al comando e chi ha pagato il conto. Perché la diversificazione, nella pratica, non è ricaduta sui Boomer o sulla Generazione X che occupano i piani alti. È ricaduta sui Millennial maschi bianchi, quelli arrivati al cancello proprio mentre il cancello cambiava regole. I numeri, in questa storia, non sono decorazione. Sono il rumore di fondo di una porta che si chiude: gli uomini bianchi nella scrittura tv di basso livello dal 48% (2011) all’11,9% (2024). Redazioni che cambiano volto. Assunzioni che diventano calcolo identitario. E non parliamo di frasi dette sottovoce: «Era scontato che non avremmo assunto la persona migliore», ricorda uno dei capi. Non è solo Hollywood, che almeno ha la decenza di essere cinica. È anche il giornalismo, che invece ama presentarsi come morale. Andrew, reporter di cronaca, prova la stessa sensazione: lavora, macina notti e weekend, fa scoop, si costruisce credibilità. Poi a un certo punto la redazione smette di parlare di articoli e inizia a parlare di metriche. La diversità diventa ossessione, la pipeline non cambia ma le porte sì. I corsi, le valutazioni di “clima”, l’ordine di catalogare le caratteristiche identitarie delle fonti. E la subcultura che entra di colpo: applausi su Zoom, dita che schioccano nella chat. Un linguaggio che, più che includere, marca chi è fuori. Andrew fa domanda ovunque: Atlantic, Politico, CNN, Washington Post, New York Times. Niente. Non arriva nemmeno al colloquio. Il paradosso è feroce: ai piani alti restano spesso uomini bianchi più anziani, e proprio perché restano, sotto non c’è spazio. Non basta essere bravi. Devi essere eccezionale, e possibilmente anche qualcos’altro. Nasce così la «stanza vietata»: non un luogo fisico, ma una condizione sociale. La sensazione che il mondo non tifi per te, anzi tifi deliberatamente contro di te. E quando questa sensazione attecchisce in una generazione, non è un dettaglio psicologico. È politica, cultura, destino. Ora, qui bisogna fare uno sforzo di lucidità, perché gli esseri umani hanno un talento speciale nel trasformare ogni sofferenza in una gara di sofferenza. È vero: altri gruppi hanno subìto discriminazioni peggiori, più brutali, più radicate, ma il destino di Jacob e degli altri non è la storia di «tutti gli uomini bianchi». È la storia di una coorte, di quelli arrivati nel momento sbagliato, quando le ingiustizie del passato vengono pagate dagli ultimi arrivati. Il risultato non è soltanto professionale. È esistenziale. Matt, che a Hollywood voleva diventare uno di quei mediocri sceneggiatori destinati a lavorare per sempre, finisce a fare il pendolare verso un lavoro umile, con debiti sulla carta di credito e fantasie ricorrenti di cambiare nome e trasferirsi in Thailandia. Una vita intera ridotta a: monolocale, VPN, fuga. Non è tragedia greca. È tragedia americana: l’idea che il mondo funzioni in un modo e scoprire che ha cambiato istruzioni senza avvisarti. La cosa più inquietante non è l’idea che si sia tentato di riequilibrare. È il modo: il tutto subito e la «bontà» che diventà esclusione. Forse la domanda finale non è nemmeno «chi ha ragione ».
È più devastante: queste istituzioni sono diventate migliori? I media sono più affidabili? Hollywood produce cose più vere? L’università è più rispettata? Perché se la risposta è no, allora abbiamo fatto quello che l’umanità fa meglio: scambiare la giustizia con la scenografia della giustizia. E abbiamo lasciato una generazione fuori dalla stanza, ad ascoltare il futuro da dietro la porta.