A saperlo il generale Roberto Vannacci ne avrebbe fatto un’imperdibile capitolo del suo libro su Il mondo al contrario.
Ma purtroppo per il generale quest’ultima superlativa apoteosi del politicamente corretto ambientata in Germania non era ancora salita agli onori delle cronache. In mancanza di Vannacci ci ha pensato il Washington Post. Seppur con tutti i distinguo possibili il quotidiano, campione del liberal pensiero, racconta la clamorosa vicenda di un museo di Dortmund dove - in concomitanza con una mostra sul colonialismo - si sperimenta la segregazione razziale nei confronti del pubblico di pelle bianca.
Sì, non strabuzzate gli occhi, avete letto bene. È andata, anzi sta andando, proprio così. Ogni sabato la direzione del Museo industriale Zeche Zollern e gli organizzatori di Das ist kolonial (Questo è colonialismo) - una mostra allestita fin da marzo riservano uno spazio di quattro ore esclusivamente alle visite di neri, indigeni o «altra gente colorata» (si il Washington Post scrive proprio «people of color», ndr) di origine diversa da quella tedesca, bianca o europea. Ovviamente agli ideatori dell’iniziativa non è neanche passato per la testa che potesse trattarsi di una forma di razzismo, o di segregazione, opposta, ma esattamente equivalente a quella praticata dai famigerati colonizzatori del passato. «Dal nostro punto di vista è solo un modo per permettere di visitare la mostra senza affrontare un ulteriore (anche se magari inconsapevole) discriminazione» hanno spiegato i dirigenti del museo ai giornalisti del Washington Post pronti ad abbozzare la volgare supposizione. Senza rendersi conto che più si giustificavano più s’impelagavano. Anche perché identificare i visitatori tedeschi, bianchi, o semplicemente europei, come dei reprobi pronti a riversare occhiate di scherno o derisione sui visitatori di colore è, nei fatti, una forma, se non di razzismo, almeno di grave pregiudizio.
Così in loro soccorso è subito arrivato il direttore del museo Kirsten Baumann spiegando che lo scopo dello spazio riservato ai «non bianchi» «rappresenta una premura nei confronti di chi risente più di altri del tema del colonialismo». Senza rendersi conto che pronunciare una simile frase a oltre cinquant’anni dalla fine del colonialismo è, quello sì, autentico razzismo. Il pensiero debole del direttore Baumann finisce infatti con l’attribuire una scarsa capacità di concentrazione e di autonomia riflessiva a quelle persone di colore che lo «spazio sicuro» dovrebbe garantire.
Ma le considerazioni del direttore Baumann sono poca cosa rispetto ai contenuti del sito web del museo pronti a descrivere la mostra come un imperdibile laboratorio interattivo in cui apprendere la storia del colonialismo tedesco. «La tazza del caffè della mattina, il nome di una strada o certi pregiudizi - provano, secondo il sito - che la storia coloniale e ancora presente nella vita di tutti i giorni». Il caffè nel pensiero, se non malato perlomeno compulsivo, che alimenta i sentimenti anti-colonialista degli organizzatori sarebbe infatti una bevanda rubata alle popolazioni di colore, ottenuta grazie al loro lavoro ed esibita dall’Occidente come un simbolo della propria cultura.
Peccato che anche questo sia un falso storico. I primi a esportare dall’Africa i preziosi chicchi, non sono stati gli europei, ma gli arabi che andavano prenderli nel reame etiopico di Kaffa.
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