Il vero volto del 25 aprile

Croce disse (a ragione) che nessuno aveva vinto la guerra. Troppo odio e violenza avevano contraddistinto il nostro Paese. E la scia di sangue sembra non finire mai

Il vero volto del 25 aprile

"Noi italiani abbiamo perduto una guerra, e l’abbiamo perduta 'tutti', anche coloro che l'hanno deprecata con ogni loro potere, anche coloro che sono stati perseguitati dal regime che l'ha dichiarata, anche coloro che sono morti per l’opposizione a questo regime, consapevoli come eravamo tutti che la guerra sciagurata, impegnando la nostra Patria, impegnava anche noi, senza eccezioni, noi che non possiamo distaccarci dal bene e dal male della nostra Patria, né dalle sue vittorie né dalle sue sconfitte. Ciò è pacifico quanto evidente". Benedetto Croce pronunciò queste parole di fronte all'Assemblea Costituente in occasione della ratifica del trattato di pace, il 24 luglio del 1947. Nessuno vinse il 25 aprile del 1945. L'Italia era libera, certo. Ma a che prezzo? Il Paese era distrutto politicamente ed economicamente. Gli italiani mai così divisi.

L'8 di settembre, infatti, aveva spaccato il Paese in due: 160mila persone avevano deciso di aderire alla Repubblica sociale italiana, 130mila alla resistenza. In mezzo, l'immenso mare grigio degli indecisi, di coloro che stavano da una parte o dall'altra senza prendere apertamente posizione. Di quelli che, seguendo la più italica delle virtù, decisero di stare alla finestra a guardare.

Fu, quello che andò dall'autunno del 1943 alla primavera del 1945, un anno e mezzo di guerriglia, rastrellamenti e, anche (forse sarebbe meglio dire soprattutto), violenza gratuita. Da una parte e dall'altra. Solo che per lungo tempo si parlò solamente dei crimini di fascisti e nazionalsocialisti. Giusto e scontato, per carità. La storia, come è noto, la scrivono i vincitori a proprio gusto e, soprattutto, consumo.

La neonata repubblica aveva bisogno di un mito sul quale poggiare e quel mito doveva essere, per forze di cose, quello della resistenza. Tutte le ére politiche, si pensi ad esempio alla nascita di Roma, necessitano di un tributo di sangue: Romolo deve uccidere Remo. Benito Mussolini, l'ormai ex duce, doveva essere brutalmente ammazzato ed esposto all'odio di piazzale Loreto. Un Paese intero aveva bisogno di vederlo non solo morto, ma sfigurato. Bisognava esorcizzare la paura di esser stati con quell'uomo, di essersi fidati di lui, di averlo seguito non per due mesi ma per ventidue anni. Del resto era stato Winston Churchill a dire: "Bizzarro popolo gli italiani. Un giorno 45 milioni di fascisti. Il giorno dopo 45 milioni tra antifascisti e partigiani. Eppure, questi 90 milioni di italiani non risultano dai censimenti".

Ed è proprio quello che accadde. La resistenza fu un fenomeno di minoranza (vi parteciparono solamente 130mila persone contro i 160mila volontari della Rsi) e solo dopo la fine della guerra divenne un'epopea. Si cercò in tutti i modi di cancellare i crimini compiuti dei partigiani. Per anni non si parlò, tranne in rare occasioni, del triangolo della morte in Emilia o delle foibe sul confine orientale. La resistenza non poteva esser macchiata da alcun crimine. Nonostante ce ne fossero molti, come ogni guerra, per di più asimmetrica, prevede.

E questo almeno fino al 2003, quando Giampaolo Pansa scrisse Il sangue dei vinti. Quello che accadde in Italia dopo il 25 aprile (Sperling & Kupfer). Il libro, va detto, non portava alcuna verità ulteriore dal punto di vista storiografico. Ma era il nome dell'autore, la sua provenienza da sinistra e la sua potenza mediatica a ribaltare il tutto. Nella prefazione, il grande giornalista piemontese scrive: "Se scruto dentro di me, m'accorgo che sono diventato meno manicheo. Prima ero incline a dividere il mondo in amici nemici. E a distinguere con intransigenza il bene dal male. A proposito della guerra civile, il bene era la Resistenza, il male i fascisti. Oggi non sono più sicuro di questa spartizione netta. Parlo della storia delle persone, naturalmente. Non della grande storia, ossia dello scontro fra democrazia e totalitarismo".

Ecco, è questo il merito di Pansa. Di aver dimostrato che sotto la grande storia, dove è facile distinguere il bene dal male, esistono le vicende dei singoli, di coloro che, i più svariati motivi, decisero di combattere da una parte o dall'altra. L'immagine più drammatica, forse, ci è data da quattordici fratelli (7 + 7) che furono brutalmente sterminati. Stiamo parlando dei sette fratelli Cervi, fucilati dai fascisti il 28 dicembre del 1943, e i sette fratelli Govoni, seviziati e massacrati a guerra finita dai partigiani della Brigata Paolo. Due famiglie distrutte per mano dell'odio.

Furono in pochi a vincere in quei mesi. Uno di questi fu Giovannino Guareschi, che aveva deciso, per restare fedele al giuramente fatto al re, di finire nei campi di concentramento tedeschi: "Per quello che mi riguarda, la storia è tutta qui.

Una banalissima storia nella quale io ho avuto il peso di un guscio di nocciola nell’oceano in tempesta, e dalla quale io esco senza nastrini e senza medaglie ma vittorioso perché, nonostante tutto e tutti, io sono riuscito a passare attraverso questo cataclisma senza odiare nessuno". Pochi riuscirono a farlo. Ed è per questo che l'Italia non perse solo la guerra. Ma anche se stessa.

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