Ogni volta che intorno a Walter Benjamin si costruisce una esposizione bio-bibliografica (l'ultima è stata lo scorso anno a Parigi, al Musée du Judaïsme), il visitatore si ritrova irretito da una scrittura minuscola e perfetta, calligrafica nel suo essere una sorta di codice miniato, curioso contraltare di una struttura fisica dove la leggerezza è estranea e tutto rimanda alla placida mancanza di gusto di un professore tedesco dell'età guglielmina. La bellezza di Benjamin era nella scrittura e nel suo essere un uomo di libri e di lettere, anche nel senso alfabetico del termine, la biblioteca come l'immenso campo della conoscenza e quindi della vita, annotata, ordinata, comparata, trasformata in generi e sottogeneri, gli uni e gli altri fra loro collegati con un complesso sistema di colori e di contrassegni che più tardi, a stesura avvenuta, si sarebbero andati a deporre senza sforzo sulla pagina, incastonati come un filo di perle. Fuori da lì, fuori da quell'universo cartaceo, la silhouette di Benjamin rimandava curiosamente all'albatros catturato del suo amato Baudelaire, una sorta quasi di gemello metafisico: la stessa goffaggine, l'impossibilità di recuperare quella perfezione che, nel volo, era stata la sua.
Adesso che Neri Pozza affida a Giorgio Agamben, Barbara Chitussi e Clemens-Carl Härle, la cura di questo Charles Baudelaire. Un poeta lirico nell'età del capitalismo avanzato (pagg. 927, euro 23), ovvero la ricostruzione - grazie ai manoscritti benjaminiani proprio da Agamben ritrovati ormai trent'anni fa nella Biblioteca nazionale di Parigi - del saggio su Baudelaire che fu al centro dei suoi due ultimi anni di vita, l'idea di un gigantesco laboratorio mentale e insieme pratico, fatto di intuizioni e successive elaborazioni, montaggi, scritture e riscritture si presenta al lettore in tutta la sua stravagante e quasi luciferina ansia di completezza condannata a essere sempre e comunque disattesa. E c'è da restare sbalorditi.
Della Francia che dopo la sbronza napoleonica si era rassegnata a un Ottocento positivista e borghese nelle arti, repubblican-monarchico in politica, Baudelaire fu un caso a sé, il reazionario cantore di un mondo a parte, lo spregiatore del progresso e dei suoi fasti, questo «fanale oscuro che getta tenebre su tutti gli oggetti della conoscenza». Era proprio la dicotomia fra la modernità e il suo rifiuto, il passaggio da vate a semplice contemporaneo della società in cui viveva e di cui accettava le leggi, la poesia come merce, il poeta come prostituto di se stesso, ad attrarre e insieme respingere Benjamin, un Baudelaire lumpen-proletario dove la coscienza di classe non va oltre la «metafisica del provocatore»: «Io dico viva la rivoluzione! come se dicessi viva la Distruzione!». Una vita, la sua, convulsa e infelice, schiacciata fra l'amore per la madre e l'odio ricambiato per il patrigno, quel generale Aupik che durante le barricate del 1848 avrebbe voluto vedere davanti a un plotone d'esecuzione... Il flâneur di Parigi, il dandy rigoroso e l'ozioso faticatore di versi e di forme, lo scrittore ossessionato dai debiti e costretto alle umiliazioni più basse, un uomo sempre e comunque ferito, ma mai vinto nella consapevolezza del proprio valore.
Fra le stanze, i tavoli da consultazione e i libri della Biblioteca nazionale dove Benjamin ne studiava la vita e le opere, e il palazzo di Lauzun dove il poeta abitò per un periodo della sua vita, c'è di mezzo l'Île Saint-Louis e la Senna. «Se sapeste che vita faceva. Aveva come amante un'orribile negra e faceva affari di quadri con Arondel». Arondel era il rigattiere che stava a piano terra. Lo studio era a sinistra del portone d'ingresso, un'unica finestra che dà sulla Senna e che il suo abitatore aveva voluto di vetri smerigliati fino alla lunetta superiore. «Per non vedere altro che il cielo» aveva spiegato. Carte da parati a fiorami rossi e neri, tende di damasco e litografie di Delacroix, un tavolo di noce, un letto di quercia e un armadio completavano l'arredamento della stanza che era anche camera da letto.
Il gioiello dell'hôtel de Lauzun era al piano nobile, lì dove Baudelaire e i suoi amici avevano dato vita al «club degli Hashishini», secondo il nome coniato da Théophile Gautier, ovvero dei fumatori di oppio. Consisteva di un salone, un boudoir, una camera da letto, tutto in stile Luigi XIV e tutto superbamente affrescato: specchi alle pareti, ninfe e satiri sui soffitti, una tribuna per musicanti ricavata in una nicchia sospesa nel salone. Nei Paradisi artificiali Baudelaire lo paragonerà a «una gabbia molto raffinata, una bellissima gabbia per un grandissimo uccello». Il volatile, naturalmente, era lui, perso e preso in una prigione non sempre dorata dalla quale comunque poteva sempre evadere.
Ossessivamente, il pensiero di Benjamin ruota intorno alla folla, la massa, «l'ultima droga di chi è solo, l'ultimo rifugio del proscritto», e il Baudelaire flâneur, camminatore solitario nel labirinto della città e della folla stessa. L'economia mercantile ha svalorizzato il mondo umano, lo spleen, il malinconico disgusto, altro non è che «la quintessenza dell'esperienza storica», la consapevolezza «del sempre-uguale». «Contro la sopraffazione operata dallo spleen non resta che fare appello al nuovo, e mettere in opera il nuovo è il vero compito dell'eroe moderno» di cui proprio Baudelaire è la più perfetta incarnazione.
Straordinario magazzino intellettuale, il libro mai finito sull'autore dei Fiori del male provocherà le rimostranze di Adorno. «Lei si è fatto violenza, al fine di pagar dei tributi al marxismo, tributi che non si addicono né a lei né a esso».
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