A quasi vent'anni dalla prima edizione americana di Infinite Jest (1996), il romanzo che ha trasformato in autore di culto David Foster Wallace, gli Stati Uniti sono spaccati in due: scrittore geniale o sopravvalutato? La sua casa editrice, la Little Brown and Company (gruppo Hachette), ha appena indetto un concorso aperto a tutti i fan di Wallace per ridisegnare la copertina del libro. Ha dichiarato Michael Pietsch, editor di Wallace e amministratore delegato di Hachette: «Invitiamo i lettori che hanno provato entusiasmo e amore nei confronti di Infinite Jest a condividere con noi la loro ispirazione». Chissà cosa ne penserebbe David Foster Wallace, morto suicida nel 2008, a soli 46 anni dopo una vita trascorsa tra droghe e psicofarmaci, di questa operazione che è come minimo in sospetto di marketing. Anche perché in questi giorni è uscito America il film The End of the Tour diretto da James Ponsoldt e tratto dal libro intervista Come diventare se stessi (cronaca di cinque giorni passati dallo scrittore con il giornalista David Lipsky nel 1996, in Italia edito da Minimum Fax). La pellicola ha suscitato ampi consensi dalla critica ma anche accuse feroci della vedova Wallace e di moltissimi fan. Perché David Foster Wallace, oltre ai lettori, ha un esercito di fan che non perdonano. Ma anche detrattori «affezionati». Ad esempio Bret Easton Ellis: pochi giorni fa ha stroncato il film sul sito The Talkhouse . Ed è ripartita una querelle che dura da anni. L'autore di American Psycho fece clamore scrivendo, all'indomani del suicidio di Wallace, che il rivale «possedeva una tale pretenziosità letteraria da farmi vergognare di appartenere alla stessa industria editoriale». Fu sommerso di fischi.
Approfittando del ventennale (in Italia la prima edizione è apparsa per Fandango) e in attesa del film - dove lo scrittore è interpretato da Jason Segel, un attore comico americano noto per alcune serie tv e per aver fatto coppia con Cameron Diaz nel flop Sex Tape: finiti in Rete - i fan potrebbero cogliere l'occasione di rileggere i libri di Wallace (oggi tutti editi da Einaudi) alla luce delle critiche recenti. David Foster Wallace è un fenomeno che dice molto sull'attuale situazione della letteratura non solo statunitense e, soprattutto, sulla misera condizione nella quale sono obbligati a barcamenarsi i critici. Sempre rinchiuso tra le gabbie da definizione, passando dall'essere il «portavoce di una rinnovata metanarrativa» a «ultimo esponente del postmoderno» sino a «punta di diamante dell'avant pop più estremo» e «geniale pittore dell'ipermoderno», solo per citare i giudizi più moderati, Wallace è stato ridotto a un prodotto, un logo da esportazione, sinonimo di una qualità che a volte sembra più ventilata che effettiva. Forse bisogna leggere Wallace per sapere che «la cultura di massa è la grande ninna nanna che culla gli Stati Uniti d'America col suo affettato la la la»? Oppure che «la realtà diventerà fiction che diventerà realtà»?
Infinite Jest è il classico libro che paralizza la critica e spiazza il lettore: i recensori, impallidendo davanti alle mille e passa pagine del romanzo, hanno preferito incensarlo (magari senza leggerlo) e seguire ciecamente gli intellettuali americani, soprattutto la lobby underground capitanata da Larry McCafferry, che considerano questo libro come un capolavoro di originalità; molti lettori, invece, impallidiscono perché, non solo a libro chiuso, avvertono una sottile sensazione di essere stati presi in giro, di trovarsi di fronte ad una lettura dispendiosa ma in fondo banale. Viene il dubbio: e se Infinite Jest non fosse altro che una sorta di blob cartaceo a bobina impazzita dove di originale c'è nulla, una sorta di remix usurato che non cita nemmeno le fonti e che si vuole spacciare come esempio della «nuova frontiera della metanarrativa»? L'idea chiave di tutto il libro - la denuncia di una società ormai divorata dalla «metastasi del guardare» - era già stata esposta nel 1800 da William Wordsworth (ma è solo il primo dei tanti) in versi profetici sulla «tirannia dell'occhio corporeo». Dell'altra idea guida - i pericoli di una società che ha il suo unico credo nel divertimento - hanno invece scritto Aldous Huxley nel romanzo Il mondo nuovo (1932) e Neil Postman nel saggio capolavoro Divertirsi da morire (1982).
Che dire poi di quella che Wallace definisce «la propria polifonia linguistica che rappresenta l'impazzimento della società»? Prima di lui, molti hanno notato, ci era già arrivato il Robbe-Grillet di Progetto per una rivoluzione a New York (1970) e persino l'Andy Warhol di From A to B and back again (tradotto in italiano con il titolo A per Newton&Compton). E ancora: l'idea di una società dominata dalla pubblicità non è forse mutuata da I mercanti dello spazio di Fredrick Pohl e C.M.
Kornbluth (1953)? Della merce «imbevuta di una traccia utopica» non aveva forse già parlato Walter Benjamin? Che dire, infine, delle tantissime somiglianze, a dir poco imbarazzanti, con molti passaggi de Le perizie di William Gaddis (1955), del Limbo di Bernard Wolfe (1952) o di Uno zoo lungo la strada di Tom Robbins (1971)? Più che un «geniale pittore dell'ipermoderno», Wallace ai detrattori appare così: un abile riciclatore capace di mettere la testa di lettori e critici in centrifuga.
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