Stravaganze da misantropo pop. Nell'edizione Bur delle Poesie di Guido Ceronetti (La distanza, 1996) appaiono, firmate da lui, un paio di liriche intitolate Il Gineceo. Due anni dopo il poeta ammette la razzia: «si trattava di un falso, di un'indebita appropriazione!». Quelle poesie, insieme ad altre, sono il residuo di un'opera (Il Gineceo, ancora, stampato nel 1998 da Adelphi) incorporata al nome di Mehmet Gayuk. Turco, nato nel 1891, spirato, probabilmente, nel 1940, chiaramente ignoto, spettro vagante con cetra tra le fauci, i suoi «manoscritti» giungono nelle mani di Ceronetti attraverso quelle di Hannah Zeytin, che li raccatta, «nei giorni dell'invasione israeliana e della guerra tra le fazioni, da una biblioteca libanese». Questo Mehmet, stando all'apparato di note impalcato da Ceronetti (più interessante dei poemi, intarsiati di merletti liberty e di putti teosofici, con quell'harem invisibile che pare sede dei beati, più che rosa mistica, vagina mitica), conosce il Corano come L'uomo invisibile di Wells, maneggia la Bibbia insieme a Döblin e ad Aleksandr Kuprin, legge l'Apocalisse e l'Illustrated London News, si abbevera di Gurdjieff mirando all'angelico viavai davanti a una luminosa casa di piaceri.
Il gioco fu subito svelato, Ceronetti aveva fatto di Gayuk uno svelato se stesso. Dai giornali Guido dovette difendersi: «Il Gineceo di Gayuk, con le sue strane voci di purgatorio erotico, mi ha dato l'occasione, sempre sperata, di un'altra appropriazione d'anima» (Corriere della Sera, 18 marzo 1998). Da allora del turco Gayuk (copia, sulle rive del Bosforo, del quasi coetaneo Konstantinos Kavafis, mirabilmente tradotto da Ceronetti) si son perse tracce e versi. L'ho ritrovato in una antologia ceronettiana pubblicata dalle Edizioni Qiqajon nel 2003, Siamo fragili spariamo poesia, con un altro alter ego dell'autore, tale Divo Tamanzo (creato col calco di Giovenale), di cui è antologizzato un poema sul Fast Food, locale infernale dove ci si esprime in una lingua «protostorica: monosillabi, strida, rutti». Ora i Poemi del gineceo tornano tra noi, via Adelphi, e Gayuk è relegato a divinità finta, rutto umano: Ceronetti si piglia la paternità del fattaccio lirico. L'editore blatera di «finzione letteraria perfettamente riuscita», ma si sapeva già tutto da quel dì. Ceronetti è poeta eracliteo, magnetico, trasgressivo nelle intenzioni, buonissime, per carità, nella sostanza è più bravo a fare il verso agli altri.
Poeta involuto, anomalo e anaffettivo, tra Cantico dei cantici e Moulin Rouge, Ceronetti fu sedotto dai fari della notorietà lirica quando intinse la penna nel «caso Englaro». Era il 2008, con La ballata dell'angelo ferito: tra versi stantii e intelligenza messa sottaceto («dolcissimo io vorrei darti morire/ ma c'è una bieca Italia di congiura/ che mi sentenzia che non è natura») diede un calcio nelle palle ai suoi divi, William Blake e Céline, Al-Hallaj e Miguel Hernandez, Trakl, Lucrezio e Giobbe, mostrando di disprezzarli, riaggiustando il peggior grammofono della poesia «civile italiana». Da allora è impensabile resurrezione lirica: il rango di Ceronetti è quello di uno scapigliato fuori tempo. Piuttosto, meglio il Ceronetti saggista, le sue imperdibili, improbabili glossolalie, gli acuti da tremendo profeta che al posto del deserto gli sono capitati il Corriere, La Stampa, Adelphi.
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