«La menzogna è l'unica difesa dell'uomo civilizzato» diceva André Malraux. «Se non volete che vi si menta, non fate domande. La biografia di un creatore non ha alcuna importanza. Se un autore non può essere identificato con la sua opera, vuol dire che l'uno e l'altra non valgono niente». Marguerite Duras avrebbe sottoscritto. Facevano entrambi parte della categoria dei mitomani, un canone artistico-letterario più che clinico-psichiatrico. Tutto nella autobiografia in forma di romanzi della Duras era inventato, a cominciare del resto dal nome. Non era stata povera, sua madre non era impazzita per i fallimenti economici, suo fratello non aveva istinti omicidi e non la picchiava... Nemmeno «l'amante» del suo romanzo più famoso era vero: non era cinese, ma vietnamita, non era bello, ma piuttosto bruttino... «Le vite private sono un concentrato di vergogne e di miserie»: è ancora Malraux a dirlo, ma potrebbe averlo scritto la Duras. L'unica differenza fra le due mitomanie stava nel tipo di personaggio creato: lo scrittore-avventuriero tentato dall'azione del primo, la scrittrice da un miliardo di uomini della seconda.
Marguerite Donnadieu, questo il suo vero nome, da giovane era stata graziosa: minuta nel fisico, un volto curiosamente asiatico (era sì nata in Indocina, ma i genitori erano francesi puro sangue), bei capelli, gambe sottili e quella eleganza artificiale eppure naturale di chi nell'abbigliarsi sapeva far incontrare l'Oriente con l'Occidente. Nel tempo divenne una sorta di caricatura in uniforme, la cosiddetta uniforme Duras di cui Sandra Petrignani dà conto nel suo Marguerite (Neri Pozza, 212 pagine, 16 euro): «Gilet di cuoio, maglione a collo alto, gonna pied-de-poule al ginocchio, stivaletti Weston e pesanti occhiali dalla montatura nera sul naso. I capelli corti, spettinati». Aveva preso a parlare di sé in terza persona, diceva che «la parola è un atto politico», si identificava con il popolo ebraico, trasformava ogni pregiudicato psicopatico in un eroe, in uno scrittore rivoluzionario...
Politicamente era «una pasticciona», come riassumerà al termine di una litigata Robert Antelme, suo marito negli anni Trenta del Novecento e da cui poi divorzierà negli anni Quaranta. Antelme era quell'intellettuale che quando il Partito comunista francese, infeudato a quello sovietico, cominciò a parlare di «uomo nuovo», «nuovo umanesimo» eccetera, se ne uscirà dicendo che il comunismo aveva «creato un nuovo tipo di stronzo». Venne espulso per trotskismo e immoralità. Si ritrovò espulsa anche lei, ne fece una malattia, cercò di iscriversi una seconda volta.
All'impegno politico la Duras era arrivata tardi. Ancora nel 1943, lavorava per il Comité d'organisation du livre, l'associazione degli editori creata dal governo di Vichy, e aveva alle spalle un libro di circostanza sull'impero coloniale. Era amica del critico letterario Ramon Fernandez, collaborazionista dichiarato, e grazie a lui aveva trovato casa, l'appartamento di rue Saint Benoît in cui resterà per tutta la vita. Era lo stesso dove aveva trovato rifugio Sainte-Beuve dopo la rivoluzione del 1848 e dove più tardi sarebbe vissuto Léo Larguier, l'autore di Saint Germani-des-Prés mon village. Lì la Duras ospiterà François Mitterrand, che fino al '43 era stato un funzionario di Vichy e nel '44 divenne un membro del governo provvisorio di de Gaulle. Due piani più sopra, Fernandez riceveva Gerhard Heller, il funzionario tedesco che sovrintendeva alla cultura nella Francia occupata. Antelme, che sopravviverà a Buchenwald e a Dachau (magistrale è Il dolore, il racconto del suo ritorno, più morto che vivo, che ne fa la Duras, e magistrale è La specie umana, scritto in altra ottica da Antelme), prima di entrare nella resistenza era stato il portavoce di Pierre Pucheu, ministro dell'Industria di Vichy, e poi suo segretario particolare quando Pucheu divenne ministro degli Interni, e insomma, la Francia del tempo, il collaborazionismo, la resistenza del tempo erano questa cosa qui, un intreccio inestricabile di male e di bene...
Il valore della Duras, naturalmente, sta da tutt'altra parte, in quella religione della scrittura che fu in fondo la sua vera fede. In Marguerite, Sandra Petrignani la racconta benissimo, scegliendo la strada della biografia-romanzo di cui l'ultimo capitolo dà un illuminante resoconto quanto a genesi, motivazioni e suggestioni. Soprattutto, però, il libro è importante perché da spazio a quella Duras scrittrice per pochi, meno nota, schiacciata come è stata dal successo planetario, ma tardivo, de L'amante.
Libro simpatetico, come è giusto quando si ama un autore, Marguerite è comunque un libro sincero e doloroso in cui la Petrignani non nasconde nulla dei tratti anche grotteschi, se non odiosi, della Duras. A salvarla, in una vita di eccessi, c'è questo incessante corsa verso il fondo ultimo delle cose, la ricerca disperata di un approdo, il parossismo dei sentimenti, la capacità di illudersi ancora e sempre nel nome di un amore, un ricordo, un gesto, una passione.
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