Per capire il successo di Marine Le Pen, la lettura di Le suicide français , di Eric Zemmour (Albin Michel, 534 pagine, 22,90 euro) è illuminante. Uscito lo scorso ottobre, da allora il libro divide il primato delle vendite e delle polemiche con le memorie di Valérie Trierweiler, l'amante cornuta di François Hollande, il che la dice lunga sulla schizofrenia intellettuale d'oltralpe da un lato, sulla crisi profonda della gauche al potere dall'altro.
Il ritorno sulla scena politica di Nicolas Sarkozy, eletto la scorsa settimana presidente dell'Ump, aggiunge un ulteriore elemento di chiarezza. Se quest'ultimo incarna la destra politica tradizionale in corsa, direttamente o per interposta persona (Alain Juppé), per le prossime presidenziali, il tentativo di liquidare il lepenismo come fenomeno di estrema destra, appare questa volta più complicato rispetto a una decina di anni fa, quando al ballottaggio arrivarono Le Pen padre e Jacques Chirac, il primo più o meno con le stesse percentuali, intorno al 15 per cento, delle due presidenziali precedenti, 1988 e 1995, il secondo, presidente uscente, con un avvilente venti per cento scarso. Allora, sul terreno, vittima anche della frantumazione a sinistra delle candidature, era rimasto il mediocre socialista Lionel Jospin.
Nel 2017, difficilmente il copione si ripeterà, perché Marine Le Pen, rispetto al classico bipolarismo destra-sinistra porta con sé l'elemento di un populismo anti-mondialista, nazionale e quindi trasversale, giunto a maturazione.
Nel libro di Zemmour tutto questo è spiegato molto bene, nel senso che il suo autore, nel ripercorrere l'ultimo quarantennio di storia patria racconta come la destra e la sinistra siano diventate interscambiabili, procedendo di conserva, perpetuando ciascuna le scelte dell'altra, lavorando entrambe allo smantellamento di ciò che c'era per mettere al suo posto «una repubblica finta, di cartapesta, dove non si sa più dove andiamo perché non sappiamo più da dove veniamo. Ci è stato insegnato ad amare ciò che detestavamo e a detestare quello che amavamo». Risultato: la Liberté è divenuta anonimia, l' Egalité egualitarismo, la Fraternité la guerra di tutti contro tutti... Soprattutto, la fine delle politiche nazionali autonome, in nome dell'unificazione europea, ha trasformato i politici in predicatori: non governano, pregano e, se è il caso, maledicono: «La sinistra ci sorveglia da vicino, come è giusto per un popolo che ritiene pericolosamente portato al razzismo e alla xenofobia. La destra ci minaccia incessantemente di riforme decisive che ci obbligheranno, era ora, a lavorare, perché siamo dei lavativi. Più che rappresentarci, destra e sinistra sono i guardiani delle virtù. Da quarant'anni la litania delle riforme ha provocato l'ecatombe di agricoltori, piccoli commercianti, operai. Quelli che sono sopravvissuti, non vogliono morire. Questa idea fissa li rende cattivi e ringhiosi». Secondo Zemmour, «l'ideologia della mondializzazione», antirazzista e multi-culturalista, sarà per il XXI secolo quello che il nazionalismo fu per l'Ottocento e il totalitarismo per il Novecento: «Un progressismo messianico fautore di guerre. Trasferirà la guerra fra nazioni a guerra all'interno delle nazioni».
Lo scenario economico disegnato in Le sucide françias vede le élites politiche sottratte al controllo-minaccia del popolo che dovrebbero rappresentare, e il cui voto di fatto non conta più nulla, mentre «la moneta unica rafforza la polarizzazione industriale attorno a un cuore renano, cioè tedesco, lasciando la periferia, di cui anche la Francia fa parte, al destino tragico di un Mezzogiorno». Lo scenario ideologico-culturale vede l'idea di una «colonizzazione all'incontrario, un antirazzismo militante che combatte le discriminazioni qui ed estende le delocalizzazioni lì. Dopo aver spogliato del loro strumento di lavoro il proletariato made in France, gli si dà del razzista se osa difendere il proprio modello di vita devastato dalla distruzione del suo tessuto sociale». A livello giovanile, a una gioventù frutto delle metropoli mondializzate, se ne affianca un'altra, lontana dai centri urbani, con una formazione culturale modesta, corsi di formazione e piccoli lavori, «sempre più straniera nel proprio Paese, disprezzata dalle élites mediatiche, ignorata dalle élites universitarie e da quelle economiche che preferiscono delocalizzare il suo impiego all'estero. È una gioventù che vive sulla propria pelle i guasti della proletarizzazione». A tutto ciò fa contorno un pensiero ecologico-politico in cui si disprezza la globalizzazione, ma si odiano le frontiere, si difende il chilometro zero mai si vuole l'intero pianeta gastronomico sotto casa, si protegge la natura da ogni manipolazione ma si applaude a ogni manipolazione umana.
Le suicide français prospetta un avvenire posizionato «fra Disneyland e il Kossovo, grande parco di attrazioni turistiche e fortezze islamiche. Lo Stato non è altro che un guscio vuoto che non ha conservato che il peggio del suo passato, l'arroganza delle sue classi dirigenti, senza però la loro efficacia».
È tutto l'Occidente, scrive Zemmour, a subire questo gigantesco cambiamento, ma la Francia lo soffre di più, per la sua storia passata e le sue ambizioni, e perché costretta «a ingurgitare valori e costumi agli antipodi di ciò che aveva edificato nel corso dei secoli». È questa Francia negata, sconfitta, ma non del tutto rassegnata che il Front National si sta prendendo in carica.
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