Così un pugile prende a pugni il fallimento

O rmai quasi ai margini dello sport mondiale, in un tempo neanche troppo lontano il pugilato è stato un formidabile strumento per capire certi Paesi e certe culture. Basti pensare agli Stati Uniti d'America. Osservando il mondo della boxe, scrittori, registi e intellettuali hanno cercato di spiegare la rudezza e la vitalità di quel grande Paese, le sue promesse e le sue contraddizioni. Molte sono state le opere che hanno raccontato questo rapporto speciale tra la boxe e gli Stati Uniti. Basti pensare a Sulla boxe (pubblicati da e/o e da 66thand2nd) di Joyce Carol Oates o a film come Rocky , Toro scatenato e Lassù qualcuno mi ama , a documentari come Quando eravamo re , sull'epico scontro per il campionato mondiale dei pesi massimi tra Mohammed Ali e George Foreman nel 1974 a Kinshasa, nello Zaire. La boxe insomma non è solo un grande sport ma anche un modo di concepire e di vivere la vita, come diceva lo scrittore Norman Mailer.

Proprio sul mondo della boxe, sulle vite di pugili normali in cerca del match risolutivo, quello in grado di proiettarli nel novero dei campioni, è incentrato un romanzo tanto godibile quanto importante: Città amara (Fazi, pagg. 204, euro 17,50) di Leonard Gardner. È la storia di due pugili. Il primo, ormai sulla trentina, tira avanti con piccoli mestieri da quando, dopo qualche successo come «pugile di quartiere», ha osato spingersi troppo in alto per le proprie capacità ed è crollato miseramente al suolo. Si chiama Billy Tully e proprio il giorno in cui ha deciso che in fondo non è ancora così vecchio da dover definitivamente appendere i guantoni al chiodo, si imbatte nel secondo pugile: il giovane Ernie Munger. I due si sfidano, ma l'incontro dura poco perché Tully non ce la fa a sostenere il ritmo di un match amichevole.

Non siamo nella costa orientale dei tanti pugili italo-americani diventati campioni del mondo nella prima metà del Novecento. E nemmeno in uno di quei ghetti neri da cui sono usciti i campioni della boxe moderna. No, siamo a Stockton, California, un sobborgo più che una cittadina. I due, il pugile alcolizzato e abbandonato dalla moglie, e il diciottenne bello e pieno di speranze, si scambiano poche parole in quel primo incontro ma evidentemente qualcosa di simile a una simpatia è scattato tra loro. Lo vediamo quando tornano ad incrociarsi. A quel punto anche il giovane Ernie ha assaggiato il sapore del fallimento. Eppure entrambi continuano a pensare alla palestra, al ring, agli allenamenti. Entrambi sono convinti di potersi riscattare con il lavoro e l'impegno. In fondo è questo il sogno americano: dare a tutti una possibilità per costruirsi una vita diversa da quella che ci è stata assegnata dal destino. Tully e Munger, il vecchio e il giovane, il pessimista e l'idealista, tornano perfino a boxare insieme, nella stessa palestra, con lo stesso allenatore.

Città amara (da cui è stato tratto un film di John Huston del 1972) è l'unico, abbagliante romanzo di Leonard Gardner, imperniato su una scrittura priva di qualunque contorsione, precisa ma ricca di colorature e di emozioni. La sua però non è un'epopea in cui gli sconfitti tornano a vincere e si riprendono quello che gli è stato tolto, come in modo troppo prevedibile abbiamo visto nell'ultimo film americano sulla boxe arrivato nelle nostre sale, ovvero Southpaw di Antoine Fuqua. In Città amara le grandi promesse non durano a lungo.

La vita è qualcosa di tremendamente complicato sia per il vecchio Tully sia per il giovane Munger. Gli ostacoli, le trappole, gli sgambetti, le bugie sono tante, troppe per poterle schivare tutte. E non basta tutta una vita per allenarsi.

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