Da qualche mese la destra e la sinistra hanno ripreso a frequentare le stanze del dibattito intellettuale. Libri e articoli ne ripropongono la distinzione/contrapposizione in nome della sua funzionalità, pur se al momento di scendere dall'empireo delle idee alla concretezza della realtà, saggisti e giornalisti sono costretti ad ammettere che, politicamente parlando, sotto quei vestiti manca il corpo che li indossi. Fantasmi, insomma.
Fra lamenti sulla destra che non è mai apparsa, e la sinistra che è scomparsa, il dibattito suona un po' surreale, aggravato dal fatto che, sempre politicamente parlando, sia la destra sia la sinistra mirano al centro, luogo geometrico che per i politologi, si sa, non è mai esistito, «raggruppamento artificioso - scriveva mezzo secolo fa Maurice Duverger - della parte destrorsa della sinistra e della parte sinistrorsa della destra». Questo dirigersi verso un «non luogo» è emblematico: non sapendo più bene da dove si proviene né dove si vuole andare si finisce nella no man's land, la terra desolata di nessuno.
Un bel libro, La sinistra è di destra (Rizzoli, pagg. 236, euro 11) permette di spiegarci meglio. Il suo autore, Piero Sansonetti, è stato a lungo all'Unità, di cui arrivò a essere condirettore, ha poi diretto Liberazione, oggi si divide fra il quotidiano Calabria ora e il settimanale Gli Altri, una vita professionale insomma all'interno di una sinistra che nel frattempo è diventata destra e con la quale, è chiaro, lui non vuole avere niente a che spartire. Solo che Sansonetti non ne vuole sapere nemmeno di quella sinistra cui aderì ancora ragazzo, e che solo la caduta del Muro di Berlino distrusse come pensiero e come prassi. Il comunismo, ammette, era sbagliato, anzi, c'è proprio «un errore genetico del marxismo», economicismo + autoritarismo + liberalità come suoi elementi connaturati. Bene, si dirà, benvenuto fra i socialisti riformisti. Peccato che nel frattempo quest'ultimi siano scomparsi e il riformismo, inteso come «una tendenza politica che punta a ottenere delle leggi che cambiano i rapporti economici e di potere a favore dei ceti meno abbienti», si sia trasformato nel suo opposto, ovvero «una tendenza politica che pone al vertice dell'interesse generale l'interesse della produzione e dell'impresa e della competitività». È ciò che fece Tony Blair in Inghilterra, allineando la sinistra moderata al modello liberista e in pratica uccidendo la prima in cambio dell'esercizio del potere. Solo che vent'anni dopo quel modello liberista post-comunista è entrato in crisi, e infatti lo viviamo sulla nostra pelle, ma non si può dire «abbiamo scherzato, torniamo a dove eravamo prima». La storia non ripassa mai lo stesso piatto.
Qual è allora la sinistra di Sansonetti? La sua, viene voglia di dire: libertaria, non moralista né giustizialista, egualitaria, ma attenta al merito, non statalista, riformatrice nel profondo delle istituzioni nazionali, favorevole all'autonomia e alla supremazia del Politico, interclassista... È di sinistra, la sinistra di Sansonetti? Non mi sembra, ma non essendo di sinistra posso sbagliarmi.
È certo però che Sansonetti non è di destra, ma qui si apre un altro misunderstanding culturale. Per Sansonetti «è difficile considerare un successo della sinistra il fatto che il ritiro di Berlusconi sia stato seguito dalla salita al potere di Monti e di un governo che, dal punto di vista economico e sociale, sicuramente è più di destra di quello precedente. Già, forse è stato proprio Monti il capolavoro di Berlusconi», sulla falsariga del resto di ciò che è avvenuto in passato, quando nell'alternanza al governo con Romano Prodi era proprio il centro-sinistra ad attuare «la gestione delle parti più scorbutiche e più di destra del suo \ programma: le leggi che danno il via libera alla precarizzazione, le liberalizzazioni, la riduzione delle pensioni, le norme contro l'immigrazione». Berlusconi incarna dunque la destra, e pazienza se il diretto interessato lo nega. Se però lo negano anche i puristi della destra, le cose si complicano: non è un conservatore, non è un tradizionalista, non è un reazionario, come si fa a definirlo di destra? Il fatto che sia o si professi liberale, non aiuta: il liberalismo sta anche a sinistra. Il fatto che sia e si professi capitalista, nemmeno. Lo era anche Engels, lo è anche De Benedetti... Come accade per la sinistra di Sansonetti, c'è una destra ideale che non si riconosce nella destra reale e che contemporaneamente però deve fare autocritica sulla propria storia: ineguaglianza, gerarchia, autorità, legge, ordine, radicamento, tradizione, nazione, bastano a comporre un universo valoriale in grado di guidare la modernità? Non mi sembra, ma non essendo di destra posso sbagliarmi.
Nel libro di Sansonetti ci sono intuizioni interessanti, per esempio la nuova natura del leaderismo: «Una volta il leader era il mezzo per fare affermare il partito, ora il partito è un mezzo per affermare il leader», altra pietra tombale della coppia destra-sinistra. Resta però fuori dall'analisi un punto. Abbiamo applaudito al Novecento che sanciva la fine delle ideologie e, in virtù della globalizzazione, il dover ridefinire i confini e gli spazi nazionali, ma non abbiamo pensato che anche la democrazia parlamentare propria ai sistemi liberali proveniva da lì, era figlia di quel mondo e non gli sarebbe sopravvissuto se non trasformandosi. Voti e partiti, da soli, non sarebbero più bastati e, al di là della destra e della sinistra, è proprio questo che sta avvenendo: un'idea di democrazia depoliticizzata, elitaria e tecnocratica, in cui il cittadino consumatore cede la sovranità popolare a un mandarinato sempre più transnazionale, nella speranza che in cambio lo preservi da una crisi di modello di sviluppo cresciuta di pari passo con il venir meno dei sistemi politici tradizionali.
È una depoliticizzazione tanto reale quanto negata dai diretti interessati, ovvero i partiti, eccezion fatta per quello del professor Monti.
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