Fare resistenza al mito della Resistenza è impossibile, anche nell'Italia del 2013. Ad aprile uscì il saggio di Sergio Luzzatto Partigia (Mondadori) incentrato sul «segreto brutto» dello scrittore Primo Levi, ossia un terribile episodio accaduto in Valle d'Aosta nel dicembre '43, quando al Col de Joux, sopra Saint-Vincent, due giovanissimi partigiani (Fulvio Oppezzo di 18 anni e Luciano Zabaldano di 17) furono uccisi dai loro stessi compagni, fra i quali Levi, con il «metodo sovietico»: mitragliati alle spalle, senza processo. La colpa? Aver rubato cibo ai valligiani, insomma - come scrive Luzzatto - «futili motivi».
Il libro fu accolto con malcelato fastidio dai custodi dell'ortodossia resistenziale: Repubblica, Gad Lerner, Guido Vitale, l'Anpi... E ieri, sulla Stampa di Torino e di Primo Levi, un nuovo capitolo della querelle è stato scritto da Alberto Cavaglion, noto studioso dell'ebraismo italiano con diversi titoli nel catalogo Einaudi e pure autore di un pamphlet diventato un caso nel 2005, La Resistenza spiegata a mia figlia (rifiutato dallo Struzzo, il libro uscì da L'Ancora del Mediterraneo), in cui si provava a raccontare alle giovani generazioni la storia della Resistenza senza cedere alla sacralità o alla strumentalizzazione politica. Una lezione che lo stesso Cavagnon oggi sembra aver dimenticato. Dopo aver denunciato la «tendenziosità» di Partigia sul numero di maggio di Pagine Ebraiche, Cavagnon ieri in due paginoni sulla Stampa ha smontato la «forzatura» storica di Luzzatto rivelando che la chiave del «segreto brutto» è nel diario del curato Adolphe Barmaverain, stampato nel 1970 e poi dimenticato, in cui si lascerebbe intendere che i due partigiani furono trucidati per aver vessato e minacciato un'anziana ebrea di Brusson, «al punto di spingerla al suicidio».
E poi, come si dice in questi casi, come si scrisse dei libri di Giampaolo Pansa, sono cose «solo in parte sconosciute». Tutta roba che si sapeva già...
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