DOMANDE & RISPOSTE

I miserabili gli antenati li contano a memoria. Li recitano quando qualcuno parte e la lista di solito è breve: «Da Saverio e Lorenzo Musitano nacquero Giuseppe...». È l’unico modo per non perdersi. La signora di Ellis Island (Einaudi) è il racconto di come una schiatta di Santa Cristina d’Aspromonte si industria per sopravvivere alla storia. Mimmo Gangemi a New York, nel museo di quell’isola frontiera, c’è stato davvero. Non da emigrante, ma per scrivere questo romanzo e sentire se si sentiva ancora l’odore del nonno, quello che l’America non voleva, fino a quando una signora, un po’ santa e un po’ puttana, ha mischiato le carte. Barando. Il resto è il racconto del nonno e del padre.
Ellis Island, in quell’inizio di Novecento, la nostra Lampedusa. Che italiani erano?
«Erano come i tunisini di oggi, un po’ più chiari di pelle e distanti cento anni. La miseria e l’idea di costruirsi un futuro migliore li spingevano sulla terza classe di navi negriere dirette alla Merica. Pagarsi il costo del biglietto - 120 lire agli inizi del ’900 - significava due anni a lavorare di zappa sulla terra di altri o a disboscare in montagna e trascinare i tronchi con la pariglia di buoi. Nei paesi c’erano i latifondi e il popolino era proprietario di sole braccia, che offriva in piazza ai signori, speranzoso della pacca sulla spalla che concedesse la giornata. Andavano alla Merica per provare a sovvertire un destino già tracciato».
Com’era il Novecento visto da un paesino?
«In Aspromonte abbiamo vissuto un tempo che scorreva più lento che altrove, che quasi sprigionava un senso d’immutabilità. Tutto ristagnava, tristemente uguale al mese precedente, all’anno precedente, al decennio precedente, persino le facce, che consumavamo con i nostri stessi occhi. La storia è scivolata addosso come acqua sui vetri. La si è subita, la storia. Passi che altri guidavano, greggi scortate da cani innestati sul selvatico. La stessa ventata di novità portata dagli emigranti che tornavano veniva risucchiata dalla quotidianità, presto i “mericani” ridiventavano paesani antichi al pari degli altri».
Il vantaggio di uno sguardo così piccolo sulla storia?
«Gli svantaggi, non i vantaggi, sono tanti, quando poco o nulla di tuo c’è nella costruzione del futuro.

Per uno scrittore è diverso: qui ha l’occasione, irripetibile, di cogliere, tra le pieghe della modernità, rimasugli di un tempo antico, di una memoria che resiste a dispetto di tutto, qui riesce a captare nell’aria stantia la saggezza dei vecchi che si raccontavano attorno al braciere o al focolaio, qui ancora si respirano i fiati che già furono di tuo padre, di tuo nonno».

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