Ecco perché vince il romanzo-verità

Ecco perché vince il romanzo-verità

Q uelli della radio se ne sono accorti prima di tutti gli altri, come succede spesso, e già da una ventina d'anni le telefonate degli ascoltatori sono diventate l'ingrediente essenziale di buona parte della programmazione. Poi è arrivata la televisione, ha raffinato la modalità e ha inventato i reality show, in cui la «gente» agisce allo stato brado davanti alle telecamere. Sul web, per vedere qualcosa di concreto abbiamo dovuto aspettare l'esplosione dei blog prima e dei social network poi. Buona ultima ecco arrivare la letteratura: siamo nell'epoca della biografia, dell'autobiografia, della nonfiction e dell'autofiction. In tempi recenti le classifiche hanno ospitato titoli che non sono né narrativa, né saggistica, né diario e che in comune hanno l'etichetta di libri-verità: Open, l'autobiografia romanzata del tennista André Agassi; Limonov di Emmanuel Carrère e ancora i bestseller nostrani Se ti abbraccio non aver paura di Fulvio Ervas e Fai bei sogni di Massimo Gramellini.
L'impressione che si ricava mettendo insieme questi indizi è che il pubblico si aspetti di avere accesso a storie vere, testimonianze, memorie: la pura invenzione narrativa non appassiona più così tanto. È come se alcuni tabù culturali in vigore più o meno stabilmente dal XVIII al XX secolo siano definitivamente crollati. La riservatezza, per esempio: nell'epoca di Facebook nessuno più difende gelosamente i fatti propri. Lo stesso scatto di spudoratezza si sta verificando anche nel mondo dei libri. Emmanuel Carrère ha insistentemente pubblicato romanzi con lui stesso come protagonista e si era fatto conoscere da tutti i francesi una decina d'anni fa per aver pubblicato su Le Monde una lettera pornografica indirizzata alla sua compagna (uscita in Italia per Einaudi con il titolo Facciamo un gioco e poi inclusa integralmente nel suo successivo libro La vita come un romanzo russo del 2007, che svela anche i disastri personali causati da quella pubblicazione). La corsa all'autofiction di qualità è partita anche in Italia, con il nobile precursore Walter Siti e più di recente con Lorenzo Pavolini (che in Accanto alla tigre racconta la sua difficile presa di coscienza di essere il nipote del fondatore delle Brigate Nere, lui, intellettuale di sinistra), Aldo Nove (La vita oscena, la sua) ed Emanuele Trevi (Qualcosa di scritto, sorta di rilettura di Petrolio di Pasolini ma anche racconto del suo rapporto con Laura Betti al Fondo Pier Paolo Pasolini di Roma).
Il successo di questa letteratura spuria coincide, guarda caso, con l'espansione dell'importanza dei social network. Non è provato che esista una relazione tra i due fenomeni, ma entrambi creano l'occasione per finzionalizzare vite reali. Su Facebook, l'insieme di post, note, foto, video e link della nostra pagina, e anche l'insieme delle chat private, diventano la nostra ipertrofica autofiction in scala 1:1. Grazie ai social network, così come grazie ai reality show, vengono soddisfatti due bisogni apparentemente insopprimibili dell'uomo moderno: il narcisismo e il voyeurismo. Prendiamo il successo del Grande Fratello del 2000: l'Italia si è scoperta guardona. Le storie poco interessanti di una decina di persone chiuse in una grande casa piena di telecamere hanno cominciato ad appassionarci solo perché erano presentate come vere. Dieci anni dopo, i social network sono riusciti a creare un Grande Fratello Globale: milioni di piccoli Grandi Fratelli online 24 ore su 24. Il voyeurismo è soddisfatto e il narcisismo anche, si è soggetti attivi e passivi, non si è più soltanto «pubblico».
Le scritture ibride funzionano più o meno allo stesso modo: lo scrittore ammette senza patetici infingimenti di essere quello che è sempre stato dai tempi di Omero, cioè un preoccupante Narciso, e il lettore ammette senza patetici infingimenti di essere un guardone. C'è anche uno scambio (a bassa tensione) di mitomania tra autore e lettore. Mitomane l'autore perché si è messo in testa che i fatti suoi, le sue idee, le sue opinioni, i suoi successi e i suoi fallimenti siano tanto interessanti da poter fornire la materia a un'opera letteraria e mitomane il lettore che - inconsciamente - sente di essere diventato quasi amico intimo dell'autore.
Il risultato finale di questo corto circuito di piccole e innocue perversioni può essere catastrofico come sublime: dipende, banalmente, dalla penna dell'autore. D'altra parte nel mondo anglosassone il memoir possiede i suoi fuoriclasse da decenni, così come la letteratura di viaggio. Da noi, invece, leggere un bel libro che sembra un romanzo ma che non lo è sembra ogni volta una gran novità.


La frase non detta di questa riflessione, la diciamo in chiusura: siamo forse vicini alla tanto evocata «fine del romanzo»? No, il caso di Trevi - che ha dovuto presentare al premio Strega il suo memoir Qualcosa di scritto come «romanzo» altrimenti la giuria e tutta la macchina del premio sarebbero andate in tilt - è lì a testimoniare che il romanzo è ancora vivo, solo che sta cambiando. Magari per sempre, chissà.

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