A scorrere l'indice dell'epistolario di Bruce Chatwin (L'alternativa nomade. Lettere 1968-1989, Adelphi, 495 pagine, 26 euro), ci si può fare un'idea dei suoi gusti letterari. Scarsi gli scrittori inglesi, specie i classici, e quelli americani, con l'eccezione di Ernest Hemingway, predominanti i francesi e i russi (Flaubert, soprattutto, fra i primi, Babel fra i secondi), molto particolari gli italiani (Gadda e Satta), legati alla conoscenza-frequentazione di Roberto Calasso, suo editore in loco... È una lista anomala e a suo modo bizzarra, dove ciò che manca dice di più di ciò che appare, ma nell'insieme permette anche di capire quale corpo estraneo egli fu rispetto alla madrepatria, e la successiva difficoltà a incasellarlo in un genere, vista poi la diversità dei libri da lui scritti, nessun eguale all'altro per trame, situazioni, avvenimenti, stile persino.
Emerge da queste lettere anche un altro elemento, legato al fascino ambiguo che lo circondò in vita e post mortem, e che fu in fondo la sua gloria e il suo cilicio. Nello scambio con persone differenti per età, sesso, interessi, nazionalità, ciò che appare è l'incredibile capacità di legare insieme e approfondire temi. Appassionato di scienze umane e di scienze naturali, dotato di un occhio artistico straordinario e di una solida cultura umanistica, Chatwin mette tutto ciò al servizio di una golosità della vita che poi troverà nella scrittura uno sfogo e una disciplina, spingendolo di là dalla narrativa contemporanea, in un campo dove i confini tradizionali si mischiano e si confondono, diventano un'altra cosa. Non sorprende la sintonia con un travel writer eccentrico come Patrick Leigh-Fermor, per certi versi un modello, per altri una sorta di naturale filiazione, né la distonia con chi, come Wilfred Thesiger, era l'altra faccia della letteratura di viaggio anglosassone novecentesca: asciutta, virile, pre-moderna. Dirà quest'ultimo, dopo averlo conosciuto: «Bruce arrivò e parlò per tutto il pranzo e tutta la cena, dopodiché continuò a parlare seduto fuori dalla mia camera da letto, tenendomi sveglio, mentre io speravo che se ne andasse a letto».
Le lettere raccolte abbracciano un arco di tempo che comprende in pratica l'intera esistenza di chi le scrisse e raccontano, oltre le sue letture e i suoi interessi, le ambizioni e i fallimenti, i dubbi e le idiosincrasie. Offrono così il ritratto di un osservatore curioso che era anche un raccontatore inesauribile, nonché un interlocutore paziente e generoso. E, naturalmente, ci parlano di un viaggiatore instancabile, sempre più a disagio nel suo Paese d'origine, un'Inghilterra paragonata a una tomba. Il nomadismo, ripreso anche nella versione italiana del libro (quello originale era Under the Sun, un titolo che gli piaceva anche se non aveva ancora trovato l'opera a cui attribuirlo), studiato per una vita e oggetto del suo primo e unico libro fallito e mai pubblicato, assume qui il sapore quasi bulimico di una continua corsa, per tutti e cinque i continenti, in cerca di un altrove impossibile e infatti mai trovato. Non per nulla aveva fatto propria una massima di Montaigne: «Di solito, a chi mi chiede il perché dei miei viaggi, rispondo che so bene da cosa sto fuggendo, ma non so che cosa sto cercando». Intelligentemente, Nicolas Shakespeare, che del libro è insieme con Elizabeth Chatwin il curatore, e che di Chatwin ha scritto la biografia finora più completa, aggiunge alla riflessione di Montaigne questa osservazione dello scrittore vietnamita Nguyen Qui Duc: «I nomadi dell'antichità viaggiavano in cerca di cibo, rifugio, acqua. Noi moderni viaggiamo in cerca di noi stessi».
Qui e là nell'epistolario, un sintetico commento di Elizabeth Chatwin rimette a posto un'osservazione, corregge una data o un luogo, distingue fra una realtà e una fantasia. Sono interventi rari e proprio perché tali sufficienti a sfatare l'idea dell'eterno Chatwin «falsario» di sé stesso. Scrive Shakespeare che all'inizio del Duemila si sentì chiedere da un giovane giornalista australiano chi fosse Chatwin, e la sua risposta fu: «Un precursore della Rete. Connessioni illimitate, accesso istantaneo alle culture differenti». C'è del vero, ma è l'assenza del virtuale e/o artificiale, a fare la differenza. La sua rete è viva, è carnale, è fisica.
Quanto alla fama, svanito ormai quel fenomeno un po' di moda che subito dopo la morte si impadronì del personaggio come dell'opera, e attenuatosi anche il successivo ridimensionamento critico tendente a farne un minore con qualche talento, compreso quello pubblicitario, ma poco spessore, si può ormai dire che i suoi libri restano, hanno una loro classicità. Morì che aveva 48 anni, con il successo appena assaporato, stroncato sul campo di gioco della letteratura mentre si apprestava a entrare per il secondo tempo.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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