Hemingway e Dos Passos La guerra che uccise un’amicizia

Due visioni diverse del conflitto, due vite letterarie che si separano. E sullo sfondo la morte di Robles

Quando le amicizie finiscono, e apparentemente senza un vero motivo, è sempre difficile riuscire a spiegare il come e il perché, le ragioni e i torti, il momento in cui qualcosa si ruppe e nulla da allora fu più come prima. Se poi i due amici sono due scrittori, entrambi famosi, entrambi apprezzati, la ricerca si fa ancora più complicata perché ha a che fare con psicologie complesse nelle quali non entra soltanto l’essere umano che le ospita, ma l’intero corteo della sua creatività, trame, caratteri, protagonisti, analisi. John Dos Passos e Ernest Hemingway si conobbero ventenni sul fronte italiano della Grande Guerra, si frequentarono a lungo nella Parigi degli anni Venti, fecero viaggi e vacanze insieme, insieme scoprirono luoghi e libri, si lessero e si corressero reciprocamente, si stimarono e si ammirarono. Il primo sarà a lungo una sorta di zio acquisito per i figli del secondo, il secondo avrebbe voluto divenirne il cognato e a lungo sperò che sua sorella ne fosse innamorata.
Nel 1936, l’anno che segnò l’inizio della fine, John era stato ospite di Ernest a Key West, l’isola che proprio lui gli aveva fatto conoscere e amare. Non tutto nelle vacanze era filato liscio, Dos Passos troppo preso a correggere le bozze del suo ultimo libro, Hemingway troppo desideroso di divertirsi e così dimenticare per un po’ un impasse narrativo da cui non riusciva a uscire. Probabilmente si ritrovarono reciprocamente un po’ noiosi: solo che non si trattava di un’estate come tante, magari destinata ad essere riscattata dal suo prosieguo o dalla successiva, quella era l’estate in cui in Spagna scoppiò la guerra civile...
Si intitola The breaking Point. Hemingway, Dos Passos and the Murder of José Robles (Counterpoint Press editore, pagg. 350, $ 25) il saggio di Stephen Koch che ricostruisce la rottura fra i due scrittori, ma il titolo della traduzione francese, uscita più o meno in contemporanea con l’edizione americana, la spiega meglio e in modo più diretto: Adieu à l’amitié. Hemingway, Dos Passos et la guerre d’Espagne (Grasset editore, pagg. 378, euro 21). Perché è vero che fu l’assassinio di José Robles l’avvenimento che la provocò, ma questa morte servì più che altro a rendere visibile ciò che in realtà c’era già stato. E in un conflitto brutale e senza pietà quale fu quello spagnolo, l’esecuzione di José Robles non pesò in effetti più di tanto.
Koch, che ha al suo attivo un libro esemplare, Stalin Willi Münzenberg and the Seduction of the Intellettuals (Harper Collins), ovvero l’intellighentia internazionale fra le due guerre, il ruolo dello spionaggio e dei servizi segreti, gli intrecci, gli arruolamenti, i tradimenti, le abiure e le denunce che romanzieri, poeti, giornalisti, saggisti fecero in quell’arco di tempo, è bravissimo a dare in questo nuovo saggio le coordinate della posta in gioco. La guerra di Spagna fu la prova generale di ciò che sarebbe avvenuto dopo e fu il primo, clamoroso esempio, di una sconfitta militare e politica trasformata sul campo in una vittoria ideologica e culturale. Così in The Breaking Point viene ricostruito e analizzato il modo in cui Mosca riuscì a coordinare e guidare intellettuali fra loro diversissimi, a tenerli uniti, a nascondere quello che stava realmente avvenendo, a trasformarli in utili propagandisti di un mito che non corrispondeva alla realtà.
E però ciò che sopratutto interessa del libro non è tanto l’elemento storico-documetaristico, ma quello più propriamente psicologico: Koch le illustra in modo penetrante e tuttavia frammentario, troppo preso com’è a farle rientrare in un quadro più ampio, ed allora vale la pena di riassumerle per chi legge.
In quel drammatico 1936 Hemingway e Dos Passos sono in un momento delicato della loro carriera, ma mentre il primo ne è perfettamente consapevole, il secondo ancora non lo sa. Apparentemente è per Dos Passos il punto massimo: è uscito l’ultimo volume della trilogia cominciata con 42° Parallelo, Time gli ha appena dedicato la copertina, è considerato l’intellettuale liberal più rappresentativo d’America, la guerra di Spagna è per tutti la «sua» guerra. Non ha mai fatto mistero delle sue simpatie repubblicane, conosce perfettamente lo spagnolo, ha vissuto in Spagna, ha amicizie, conoscenze. José Robles è una di queste, il figlio di una nobile famiglia, già esule negli Stati Uniti e ora di nuovo in patria come agente di collegamento fra il nuovo governo e i sovietici. Proprio perché è la «sua» guerra a Dos Passos risulta incomprensibile che in essa si possano arrestare, fucilare e poi far scomparire quelli che non solo sono suoi amici, ma anche antifascisti veri, leali sostenitori della Repubblica. «A che serve battersi per le libertà civili se nel corso della lotta le eliminiamo una dopo l’altra?» si chiede. E l’idea che ci siano degli «assassinii necessari» per il trionfo della causa gli sembra nient’altro che una bestemmia.
La realtà della guerra di Spagna, insomma, lo mette di fronte a un qualcosa con cui non si era mai cimentato prima. Il difensore degli umili, degli oppressi, degli sfortunati, il cantore del Novecento come il secolo che l’avrebbe fatta finita con l’oscurantismo, la prevaricazione, si accorge che non è così, che i confini non sono così netti, che non basta essere dalla parte giusta perché la parte giusta si comporti giustamente...
Si badi bene, per maturare il proprio distacco intellettuale a Dos Passos occorrerà un ventennio e la guerra di Spagna non avrà per lui la funzione che ebbe per esempio per l’Orwell di Omaggio alla Catalogna. Meno ideologicamente preparato, Dos Passos ne farà una questione personale, una difesa delle ragioni dell’amicizia, ma non se la sentirà di trarne tutte le conseguenze.
Pur se quindi la delusione politica fu lenta e graduale, qualcosa allora si inceppò nella sua scrittura, nella sua arte. Lo stato di felicità espressiva che era stato il suo fino a quel momento non tornò più, e forse questo avvenne perché quell’innocenza, quella denuncia di ciò che non andava, unita alla certezza che poi le cose sarebbero migliorate, improvvisamente si macchiò, si velò, non fu più possibile. Coscientemente o meno, la guerra di Spagna oltre a uccidere il suo amico José Robles uccise lo scrittore Dos Passos.
Per Hemingway il discorso è opposto. In quel terribile 1936 l’autore di Addio alle armi è uno scrittore famoso, ma per certi versi datato. È l’età dell’impegno, ma lui non vuole impegnarsi e continua nella idea di una sorta di «pace separata» che la sua generazione ha fatto con il mondo dopo il carnaio della Prima guerra mondiale. Solo che quella figura di scrittore, tipica della «generazione perduta», ha funzionato per tutti gli anni Venti, ma adesso non ce la fa più a contrastare la domanda di «partecipazione», di adesione a una causa, un’idea, un partito. L’individualismo hemingwayano mostra la corda, e lui lo sa. Sa anche che dal punto di vista creativo le cose non vanno bene. È alle prese con un romanzo, Avere e non avere, a cui non riesce a dare forma, sente di aver dato fondo alle proprie esperienze e non sa come ripartire, a cosa appoggiarsi. La Spagna funziona come una sorta di rigenerazione. Quella che avrebbe dovuto essere la guerra di Dos Passos è in realtà la «sua» guerra, anche se per ragioni del tutto particolari. A lui infatti il conflitto interessa in quanto tale, ovvero come possibilità di misurare su di esso i parametri classici di un pensiero che è attraversato continuamente dalla morte, dalla paura, dal coraggio, dal tradimento. Gli serve per rendere di nuovo moderno un tipo umano altrimenti invecchiato. E infatti Robert Jordan, l’eroe di Per chi suona la campana, non potendo più sventolare la bandiera della sua «pace separata», perché è il tempo dell’impegno, la trasforma in una sorta di «suicidio separato» all’interno di quello stesso impegno. Proprio perché ideologicamente refrattario, Hemingway riesce come romanziere lì dove Dos Passos si perde: far vedere come guerre di quel genere non le si possa combattere senza sporcarsi.
Hemingway, dunque, trova in Spagna le ragioni per una sorta di resurrezione artistica e individuale e non vuole e non può seguire Dos Passos in quella che gli appare una sorta di sterile battaglia personale. È un conflitto epocale, non ci si può perdere dietro questioni private. Vuol dire immiserirlo, togliergli quella tragica, cupa grandezza di cui, egli, come spettatore-attore, ha bisogno. Ma c’è anche spazio per quello che è un personale trionfo di immagine. L’intellighentia di sinistra che fino ad allora ha avuto delle riserve nei suoi confronti, nel vederlo così addentro e così motivato si convince che ormai è fatta, è aggregato alla causa, è uno di loro. Hemingway si troverà così a prendere il posto di Dos Passos, le cui perplessità, i cui dubbi, lo fanno passare per traditore e il cui modernismo letterario è, nel nuovo corso del realismo socialista, niente di più che spazzatura borghese. Così può ora guardare il vecchio amico dall’alto in basso, ritenersi superiore a lui non solo sotto il profilo della scrittura, ma anche delle idee. L’intellettuale che per più di un decennio gli era sembrato più intelligente, più preparato, più consapevole, e di cui in fondo era spesso stato un po’ geloso, con una sorta quasi di complesso di inferiorità, si rivela adesso uno che non ha capito, che non ce la fa ad essere all’altezza del momento. È Ernest che è più avanti, non più John.
In questa ansia di essere sempre e comunque il primo, il migliore, risiede del resto una delle chiavi essenziali della psicologia hemingwayana, l’unica che spieghi perché tutta una serie di amicizie, da Sherwood Anderson a Gertrude Stein, a Scott Fitzgerald siano state via via bruciate in nome e per conto dell’ambizione personale. Competitivo, il confronto con lui finisce sempre per trasformarsi in scontro e ogni scontro che si rispetti deve terminare con la messa a tappeto dell’avversario. Proprio perché ha bisogno di una vittima per evitare di essere vittima di sé stessso, Hemingway opera una sorta di transfert e trasforma l’amico divenuto nemico nella sua immagine riflessa, presta a lui quei desideri di distruzione, superiorità, disprezzo che gli sono invece propri. A questi aggiunge degli elementi inventati, ma che fanno parte delle sue paure: l’ossessione machista gli fa dipingere un Fitzgerald preoccupato della propria virilità, il bisogno di doversi sempre dimostrare coraggioso gli fa descrivere Dos Passos come uno che in Spagna cede perché, semplicemente, si scopre vigliacco.


Quando, un quarto di secolo dopo, ormai a fine corsa, devastato dagli elettrochoc, angosciato dalla pagina vuota, abbattuto da una decadenza inarrestabile, Hemingway si ritroverà a spararsi un colpo di fucile nella sua casa dell’Idaho, dopo aver lasciato, contro il parere dei medici, la clinica dove era in cura, fra le sue carte verrà ritrovata una lettera. Allegra, piena di calore e di tenerezza, sollecita e commossa gli augurava la più completa guarigione. Era firmata John Dos Passos.

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