Nella baraonda mediatica e d’opinioni creata dalla serie su San Patrignano cade il 25esimo anniversario dell’uscita del film Trainspotting.
Cosa c’entra? C’entra! Perché in questi 25 anni, nelle comunità non finiscono più solo gli eroinomani (che ultimamente stanno risalendo le percentuali) ma tutta quella generazione cresciuta – spesso persa – a modelli che appaiono sempre più come ingegnerizzati al fine di distruggere le gioventù.
Trainspotting è un caso emblematico di prodotto cinematografico ormai cult (quanto di sistema, per quel che mi riguarda) che dalla sua uscita, nel 1996, ha impietosamente inficiato la cultura giovanile e l’immaginario sull’uso di sostanze psicotrope o droghe varie. Esagero? Vediamo! Ovviamente non sto scrivendo che chiunque abbia visto Trainspotting si sia poi drogato, ma il film ha di certo innescato una lettura normalizzante del fenomeno. Ogni cosa che si mette-in-scena normalizza quello che la scena appunto vuole rappresentare.
Il rischio della normalizzazione
Quasi nulla a che vedere con il mitico Christiane F. - Noi, i ragazzi dello zoo di Berlino (Wir Kinder vom Bahnhof Zoo, tratto dal libro-diario della protagonista Christiane Vera Felscherinow) del 1981, che di fatto fa conoscere al mondo il drammatico fenomeno della tossicodipendenza, e ancora meno con il capolavoro Requiem for a dream del 2000 (tratto dall’omonimo romanzo del 1978 di Hubert Selby). Trainspotting esce appena dopo l’inizio dell’epoca che avrebbe visto l’avvento-affermazione delle droghe sintetiche e della musica techno-dance; tratto dall’omonimo bestseller (1993) di Irvine Welsh (ex tossicodipendente affermatosi come scrittore a partire da quell’opera), il film appartiene alla categoria denominata “trasgressional fiction”.
Subito si afferma come un cult-movie: un pullulare di poster, t-shirt ed effigi dei volti dei protagonisti invade i locali che dedicano al film serate a tema e le camerette di universitari e non già rimbambiti da Non è la Rai, MTV e altre demenze inoculate.
In maniera semplicistica e superficiale oltre che cruda e spettacolarizzata (anche grazie all’ausilio fondamentale di una colonna sonora composta di brani mitici della storia della musica rock, e da Born Slippy degli Underworld, pietra miliare a registro techno), il film narra le dis-avventure di un gruppo di ragazzi scozzesi alle prese con una quotidianità fatta di droghe, espedienti per trovarle e poterle pagare, sussidi di disoccupazione, Aids, tentativi di disintossicazione, sessualità adolescenziale e rapporti interpersonali tra individui appartenenti allo stesso contesto di degrado ormai norma sociale delle periferie post-industriali, il tutto condito da dialoghi scenicamente accattivanti e scaltramente fuori luogo per dare un tocco di arguzia ai protagonisti.
Oltre che di un intreccio edulcorato che lo spettatore giovane “vivrà” vibrando di empatia per i protagonisti e cercando elementi di condivisione e soddisfazione intellettuale, il film è ricco di monologhi fuori campo del protagonista ingegnerizzati per il funzionamento commerciale tramite la fascinazione che, come sempre, passa attraverso elementi di trasgressione fasulla.
La mancanza di un messaggio sulla prevenzione
Solo con un disincantato sforzo intellettuale si può arrivare a considerare il film – al limite – uno spaccato generazionale universale, ma è comunque impossibile non comprendere l’assoluta quanto strisciante mancanza di un intento educativo finalizzato alla prevenzione e all’innesco di una consapevolezza che possa permettere al giovane spettatore di costruire una posizione intellettuale autonoma, in grado di renderlo immune dalle sottoculture a supporto dell’uso di droghe. Si prendano ad esempio alcuni monologhi:
“Prendevamo morfina, diacetylmorfina, ciclozina, codeina, temazepam, nitrazepam, fenobarbitale, amobarbitale, propoxyphene, metadone, nalbufina, petedina, pentazocina, buprenorfina, destromoramide, chlormetiazolo. Le strade schiumano di droghe contro il dolore e l'infelicità: noi le prendavamo tutte. Ci saremmo sparati la vitamina C, se l'avessero dichiarata illegale.”
“Io ho scelto di non scegliere la vita, ho scelto qualcos'altro… Le ragioni? Non ci sono ragioni… Chi ha bisogno di ragioni quando ha l'eroina?”
“Prendete l'orgasmo più bello che avete provato. Moltiplicatelo per mille. Neanche allora ci sarete vicino.” [l’allusione è all’eroina]
“Scegliete la vita, scegliete un lavoro, scegliete una carriera, scegliete un maledetto televisore a schermo gigante, scegliete lavatrici, automobili, lettori CD e apriscatole elettrici; scegliete di sedervi su un divano ad annientarvi lo spirito davanti a un telequiz. E alla fine scegliete di marcire; di tirare le cuoia in un ospizio schifoso, appena un motivo d’imbarazzo per gli idioti viziati ed egoisti che avete figliato per rimpiazzarvi. Scegliete il futuro. Scegliete la vita.”
“Metto la testa a posto, vado avanti, rigo dritto, scelgo la vita! … già adesso non vedo l'ora, diventerò esattamente come voi: il lavoro, la famiglia, il maxitelevisore del cazzo, la lavatrice, la macchina, il CD e l'apriscatole elettrico...”
Il rischio della fascinazione
Da questi estratti scaturisce un approccio inequivocabilmente “creativo” e provocatorio (che comunque, nell’Arte, dovrebbe essere associato ad altri elementi quali il carattere anticipatorio, la critica sociale e l’equilibrio estetico) finalizzato a turbare lo spettatore; allo stesso tempo, tutto il film gioca su un’ambiguità liminale, usando anche la naturalità dell’effetto caleidoscopico dello schermo, che finisce per affascinare e incuriosire lo spettatore, piuttosto che “allontanarlo” da esperienze e comportamenti a rischio.
È facile notare quanto il modello di vita ritenuto normale dal senso comune sia stato connotato come mediocre, privo di fascino, indice di una quotidianità noiosa che prefigura un’esistenza banale e comunque forzata da dogmi contro i quali si viene quasi messi in allerta. (Che schifo la normalità! Giusto?).
L’unica alternativa proposta alla trasgressione autodistruttiva dei protagonisti è la mediocrità di quello che viene presentato come normale; non sono contemplate dinamiche di liberazione che comportino una ricerca soggettiva e costruttiva dell’individualità. L’approccio sperimentalista all’esistenza si configura solo in esperienze estreme associate all’uso di sostanze tossiche, distruttive e schiavizzanti, che però sono dipinte come basilari elementi libertari e alternativi a quella quotidianità ordinaria che va a tutti i costi rifiutata ed evitata.
Siamo dunque di fronte a un accattivante (criminale, quasi) invito all’anti-conformismo di facciata, a quell’alternativismo che avrebbe poi creato mostri istituzionalizzati anche in altri aspetti sociali – uno per tutti: la politica – alternativismo che in realtà viene a sua volta ri-conformato a diverse sottoculture giovanili e giovaniliste, e assoggettato alla dipendenza gestita da poteri più malevoli organizzati a livello criminale. È nell’alternativismo sottoculturale e nella deriva nichilista in salsa pop il sottile messaggio di cui Trainspotting si fa portatore quale prodotto mediatico-culturale.
I danni della redenzione filmica
Il lieto fine è forse la menzogna più suggestiva, un epilogo in salsa borghese, una redenzione solo filmica, perché il danno – i danni – è fatto: il più sfigato è morto, il delinquente sarà arrestato, l’ingenuo sarà premiato con un pugno di sterline. La scelta borghese del finale non risolve nella sua ponderatezza salvifica perché il modello culturale è ormai impresso e il giudizio sulla normalità è espresso, al netto della fuga egoistica con il denaro derivante dallo spaccio, e in linea con la furbizia poco nobile e con l’individualismo a regime.
Inoltre, in tutto questo scompare l’emancipazione dalla dipendenza che è lotta sovraumana, dolorosa, durevole – forse permanente – che, nella realtà, non si risolve nei suggestivi tempi filmici; come sappiamo, le esistenze intaccate dalla tossicodipendenza hanno altri destini, comunque fuorviati.
Nel suo complesso, attraverso una rappresentazione superficiale e inverosimile della tossicodipendenza da droghe pesanti (eroina, metadone), il film avalla anche, indirettamente, sottostimandone effetti e dannosità, l’uso di sostanze più leggere (hashish, marijuana, tabacco e alcol, ma anche le droghe chimiche che conosceranno, dalla prima metà degli anni ‘90, una diffusione abnorme), che vengono percepite dai protagonisti come insignificanti, al punto da essere mostrate come succedanee, vizi minori – a confronto con l’eroina.
Qual è il punto? Per capirlo serve un tuffo nella realtà, e qualche numero dalla relazione annuale della DCSA (Direzione Centrale Servizi Antidroga) stilata nel 2019 sul 2018: sequestri di cocaina +127% (8,3 tonnellate); sequestri di droghe sintetiche +95,62%; decessi per overdose di oppiacei vari +11% (trend in salita peril terzo anno consecutivo).
Le ultime ricerche più dettagliate sul consumo di droga sono quelle pubblicate nel 2016 dall’istituto di Fisiologia Clinica del CNR di Pisa, che rilevavano: “rispetto al 2014, nel 2015 l’uso di eroina è raddoppiato tra gli adolescenti, […] e [l’eroina] risulta essere la droga più popolare dopo la cannabis.”- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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