I giuristi schierati che s'inventano diritti inesistenti

Il libro di Zagrebelsky sul lavoro è solo l'ultimo esempio delle grandi forzature teoriche dei "neocostituzionalisti"

I giuristi schierati  che s'inventano diritti inesistenti

Nel libricino Fondata sul lavoro. La solitudine dell'articolo 1 (Einaudi) Gustavo Zagrebesky, in un limpido stile concettuale di cui gli va dato atto, condensa i frutti di una lunga riflessione sui diritti e sulla natura della Costituzione italiana. «La Repubblica fondata sul lavoro», a suo avviso, significa che «il lavoro non solo deve consentire un'esistenza libera e dignitosa, ma deve anche svolgersi in modo libero e dignitoso e, quando per qualcuno manca, la collettività deve assumersi gli oneri relativi».
Parole chiare ma tutt'altro che semplici, si potrebbe dire. Che cosa significa, infatti, che «la collettività deve assumersi gli oneri relativi»? Che, per garantire l'occupazione nel settore della produzione di ombrelloni da spiaggia, sarà lo Stato, in caso di ritiro dal mercato degli imprenditori privati, a produrre ombrelloni da spiaggia? O a spostare gli operai ad altro settore (privato o pubblico)? Zagrebelsky che, al pari del suo alter ego Stefano Rodotà, ama citare Tocqueville quasi fosse un loro antenato nobile, avrebbe dovuto ricordare che in un'ottica liberale l'aristocratico normanno, nel discorso parlamentare sul diritto al lavoro (12 settembre 1848), aveva ammonito: «Non c'è nulla che dia ai lavoratori un diritto sullo Stato; non c'è nulla che obblighi lo Stato a mettersi al posto della previdenza individuale; non c'è nulla che autorizzi lo Stato a ingerirsi nelle industrie, a imporre loro regolamenti, a tiranneggiare l'individuo per meglio governarlo».
Va però riconosciuto che il giurista torinese, a differenza di altri fondamentalisti del «neo-costituzionalismo», ammette che il diritto al lavoro «non è uno dei diritti che i giuristi chiamano “perfetti”, diritti che il titolare può far valere in giudizio». In questo senso, sta sullo stesso piano del diritto alla salute, all'istruzione, alla previdenza sociale o anche del «diritto di formarsi una famiglia, di potersi permettere un'abitazione». Un'osservazione, questa, di buon senso: il mio diritto di scelta fra il matrimonio e il celibato, qualora mi decida per il primo, non può autorizzarmi a chiedere al giudice di rendere effettivo tale diritto mettendomi a disposizione una donna formato Nicole Kidman, una casa degna di ospitarla, un lavoro in grado di consentirle un adeguato tenore di vita. «Non esiste legge, non esiste tribunale al quale il lavoratore possa appellarsi per ottenere un “posto di lavoro”». E tuttavia, secondo Zagrebelsky tutto questo non indebolisce i diritti non «perfetti». Vi sarebbero pretese, infatti, che hanno come referente non i tribunali ma «la politica, concetto generale che, in termini costituzionali, si dire “repubblica”: legislazione, amministrazione, forze economiche e sociali. Che tali pretese si rivolgano non ai tribunali, ma alla politica, non significa affatto ch'esse siano meno urgenti, meno cogenti nei riguardi di coloro che devono dare risposte: che non siano diritti».
Eh no, caro professore, il diritto rinvia a idee come la «certezza» e la «sanzione»: non ci sono vari modi per «ottenere giustizia», ma quelli previsti dai codici che obbligano l'offensore al risarcimento del danno procurato. Nel caso della politica, abbiamo a che fare con strategie diverse che non conferiscono diritti assoluti e indisponibili, ma ispirano leggi (sempre revocabili) volte a rimuovere, per citare l'art. 3, «gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l'uguaglianza dei cittadini» ne impediscono «l'effettiva partecipazione all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese». I diritti civili e politici, a torto ritenuti «formali», sono, in realtà, diritti sostanziali: la scheda elettorale è sempre una risorsa, posso impiegarla come cliente di Achille Lauro o come elettore di Guglielmo Epifani, in ogni caso mi «darà qualcosa», un pacco di pasta o il sussidio di disoccupazione.
Il fatto è che in politica - come in etica, come in diritto - non ci sono «verità», nel senso che non ci sono metodi infallibili per dare al cittadino «astratto» garanzie per far valere concretamente i suoi «diritti universali». Se ha il diritto di recarsi a Milano quando vuole, i soldi del biglietto può procurarseli almeno in due modi diversi: o glieli dà lo Stato, in un'ottica welfarista, o glieli dà il mercato grazie a un'economia capitalista che crea occupazione, investimento, innovazione, circolazione di fiumi di denaro.

Alla base del liberalismo ci sono Montaigne e Hume, ossia lo «scetticismo dei moderni» che non consente certezze assolute sul come dare agli individui più libertà e più benessere: se il dirigismo impoverisce un Paese, si prova con la formula «più mercato, meno Stato» e viceversa.
Se questo è vero, però, dove va a finire la delegittimazione etica e politica degli avversari politici (di centrodestra), lo sport preferito da Zagrebelsky, Rodotà & C.?

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