Era una donna molto social, per i tempi che correvano. Talmente social da invitare a pranzo famiglie conosciute per caso poche ore prima su un battello, o da adottare la figlioletta di una mendicante per poi, da adulta, utilizzarla come modella, o da assumere un giardiniere semplicemente perché dotato di «una bellissima schiena». Oggi, più che postare su Facebook o twittare (come scrittrice era oltremodo pallosa, a detta di sir Henry Taylor, il poeta e drammaturgo che lei perseguitava con le sue pagine ridondanti), caricherebbe un'infinità di foto su Instagram. Magari pochi selfie solitari, avendo consapevolezza di non essere propriamente uno schianto, ma sicuramente tanti ritratti.
Julia Margaret Cameron fu una grande fotografa, anzi la fotografa per eccellenza dell'Ottocento inglese, come concordavano nel sostenere la sua celebre bisnipote Virginia Woolf e il grande critico d'arte Roger Fry. E in genere tutti i membri dell'esclusivo gruppo di Bloomsbury andavano pazzi per i suoi scatti. Scatti per modo di dire, visto che i tempi di esposizione, in pieno Ottocento, rispettavano i ritmi soporiferi della vita che scivolava intorno. Sono loro, Virginia e Roger, a introdurre il volume Fotografie vittoriane di uomini famosi e donne affascinanti (Elliot, pagg. 88, euro 17,50). «Desideravo fermare tutta la bellezza che mi passava davanti e, a lungo andare, il mio desiderio è stato esaudito», scrisse la Cameron.
Tuttavia è andata, forse senza accorgersene, oltre le sue rosee aspettative, perché nelle opere qui riprodotte e in centinaia di altre che ci è capitato di vedere, senza conoscerne l'autrice, non c'è soltanto la bellezza delicata delle fanciulle eteree e il fascino virile degli scienziati e la non posata pensosità degli scrittori. C'è quel velo di inquietudine e di disagio che viene trasferito per incanto dai soggetti all'osservatore, un'inquietudine e un disagio figlio dell'accecante o plumbeo bianco e nero, del ricordo di certe immagini coeve al limite della pedofilia firmate dal subdolo Lewis Carroll, del sostrato, appartenente da oltre un secolo all'immaginario collettivo, di un'epoca in cui si agitano assassine nebbie sherlockiane e servitù angariate, vizi privati e febbri sociali represse con l'antibiotico di pochi penny e di rare sterline. C'è quella patina di morte (e dunque di eternità catturata dalla lastra) che racconta una diffusa mestizia. C'è la drammatizzazione di sguardi cerulei fissi sull'obbiettivo, il tre quarti tanto caro ai pittori preraffaelliti, la fluidità delle barbe professorali, la carnosità delle labbra virginee. I signori sono tormentati profeti usciti da affreschi rinascimentali, le signore sono madonne addolorate. Ogni immagine nasce già iconica, ogni momento è per sempre.
Nata nel 1815 a Calcutta da un ufficiale della British East India Company e da una figlia di aristocratici francesi, la signorina Pattle divenne signora nel '38, sposando Charles Hay Cameron, giurista e filosofo della scuola di Jeremy Bentham, ma soltanto a 50 anni, nel '65, divenne fotografa. Un figlio le aveva regalato una macchina e lei, casalinga tutt'altro che disperata in mezzo agli agi e alle attività ricreative di una dorata vita rurale fra Inghilterra e India, trovò finalmente il modo di riversare nel nuovo passatempo un ingente patrimonio di sensibilità, una esuberante creatività e il tocco magico del talento.
«Gli uccelli svolazzavano dentro e fuori la porta aperta e le fotografie cadevano sui tavoli quando, distesa davanti a un'enorme finestra aperta, Mrs Cameron vide le stelle che brillavano nel cielo, sussurrò un'unica parola, Bellissimo, e spirò», scrive la sua nipotina a venire Virginia Woolf. Calcutta, 26 gennaio 1879: la Avedon in gonnella dell'800 era entrata definitivamente nella camera oscura.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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