L’ultima notte del generale

Negli anni Cinquanta lo scrittore francese collaborava con il settimanale «Confidenze». Ecco uno dei minigialli mai più letti da allora...

Sulla scrivania del mio amico G.7, incollate alla meglio su un foglio di carta, delle lettere ritagliate da vari giornali formavano questo messaggio: «Ivan Nicolaievich Morozov sarà assassinato il 19 giugno nel suo villino sul lungosenna, ad Asnières».
Niente firma, si capisce. G.7 sollevò il ricevitore. «Allò, dite all’agente Aubier di raggiungermi alle sette ad Asnières, sul lungosenna. Servizio notturno...».
G.7 si ficcò in tasca la lettera, si alzò e prese il cappello.
«Te ne stai andando? È una faccenda interessante, no?».
«Vuoi venire con me ad Asnières? Sono le sette. Un’ora di viaggio. Abbiamo il tempo di mangiare un boccone».
Il lungosenna era assolutamente deserto. Appoggiati tutti e due al parapetto, avevamo alle spalle un braccio della Senna, e una di quelle isole coltivate a orti come ne esistono a valle di Parigi. Più lontano Saint-Denis, con i suoi comignoli di fabbriche da cui uscivano fiamme e il soffio potente di macchine misteriose.
Davanti a noi, invece, un calmo e sordido paesaggio di sobborgo. Un lungosenna punteggiato di alberi malaticci. Una serie di villini separati da piccoli giardini o da terreni incolti. Guardai il villino che recava il numero 11, simile a tutti gli altri, a un solo piano, circondato da un giardinetto dove non cresceva niente. Sapevo che un agente ne aveva fatto il giro, si era assicurato che il villino fosse vuoto e si era messo di piantone dietro. Tranquillizzato, osservai che il villino aveva una porta sola, che G.7 e io non perdevamo d'occhio. E se qualcuno avesse tentato di entrare o uscire da una delle finestre posteriori, fatalmente l'agente di guardia lo avrebbe fermato.
«Quella lettera, però... quella lettera, è bizzarra», osservai.
G.7 non mi rispose. Esaminava da qualche minuto un'osteria, l’unica macchia luminosa del lungosenna.
«Andiamo a vedere», mi disse.
L’insegna diceva Ristorante Franco-Milanese. Era una piccola trattoria per gli operai italiani che lavoravano nei paraggi.
Tavoli rustici, sguattere in grembiuli grezzi. Dietro la finestra, un vecchio che G.7 si mise a osservare. Seduto solo a un tavolino, l’aria stanca, i gomiti sul tavolo, la testa piegata in avanti, mangiava lentamente un piatto di spaghetti.
«Chi è?», chiesi spazientito. «Forse lui?».
G.7 si contentò di sospirare annuendo. Tornammo al nostro posto d'osservazione davanti al villino.
Aspettare sotto la pioggia, in quell’oscurità opprimente, era un vero supplizio. Avrei pagato chissà che perché accadesse qualcosa, qualunque cosa... A un tratto vedemmo il generale uscire dal ristorante italiano, avvicinarsi lentamente a noi seguendo il marciapiede. Mi sembrò che aprisse con difficoltà la porta del villino. Mi batteva il cuore. Avrei voluto prevenire gli avvenimenti.
«Non c’è davvero nessuno dentro?».
«Nessuno!», scandì la voce opaca di G.7.
Qualcuno accese un fiammifero al primo piano del villino. Sapevo che non c’era l’elettricità. Il bagliore si comunicò allo stoppino di un lume a petrolio. Il vetro fu rimesso a posto. Ma non si vedeva niente. Eravamo troppo in basso per poter guardare nella stanza.
«Si spoglia!», mormorai, mio malgrado. «Che cosa si fa, ora?».
«Si aspetta!».
La Senna scorreva alle nostre spalle. Ero inzuppato di pioggia, gelato. Non osavo accendere la pipa per non tradire la nostra presenza. Dopo un'attesa che mi sembrò eterna udii suonare, lontano, l'una.
Rivedo il mio amico G.7 immobile, i piedi nel fango, odo ancora il suo respiro regolare. L'una e mezzo! E nessuno sul marciapiedi! Neanche un gatto veniva a rompere quella monotonia mortale. Un rivoletto d'acqua mi colava lungo la spina dorsale. Il mento mi era caduto sul petto. Chiusi macchinalmente gli occhi; non avevo mai avuto più sonno in vita mia.
Udii suonare le due, distintamente, certo, ma in modo speciale, come in un sogno. Poi, subito dopo, c'è una lacuna nei miei ricordi. Mi aggrappai a un tratto al parapetto, nell'istante preciso in cui i piedi mi scivolavano nel fango e stavo per rotolare a terra.
Mi strofinai gli occhi balbettando: «Credo di essermi addormentato».
Tirai fuori il mio orologio dal quadrante luminoso. Avevo l'impressione di aver dormito a lungo, ero furibondo contro me stesso. L'orologio segnava esattamente le due e sette. Avevo dormito sette minuti!
Il resto della notte fu un supplizio senza fine, un miscuglio di attesa, di sonnolenza, d'ebetudine, di riflessione intensa. Ci scambiavamo a volte qualche parola, freddamente.
«L'assassino non viene...».
«No...».
Verso le cinque del mattino il freddo aumentò; mi sentivo morire sotto il mio soprabito di mezza stagione. Il bar all'angolo del lungosenna si era nuovamente illuminato. Accanto a me G.7 aspettava, il viso impassibile, rigato di gocce d'acqua.
«Sarà stato uno scherzo di cattivo gusto!», dissi con un sospiro.
«Si direbbe!».
G.7 emise un sibilo e un uomo arrivò da dietro il villino, bagnato come noi, i lineamenti tirati.
«Ebbene, Aubier?».
«Niente, principale!».
«Hai visto qualcuno?».
«Nessuno, principale!».
«Ti sei addormentato?».
«Le pare!», protestò il bravo agente.
G.7 sembrava esitare. «Andiamo egualmente a gettare un colpo d'occhio lassù», decise all'ultimo momento.
Attraversò il lungosenna, entrò nel giardino del villino e bussò alla porta, che non aveva campanello. Bussò una seconda volta, invano.
«Venite!», disse seccamente G.7 a me e ad Aubier.
«Forza la serratura!».
L'agente fece funzionare abilmente un grimaldello e la porta si aprì. Entrammo in un corridoio povero, freddo, lugubre. Un cappello duro era appeso a un piolo. La porta della stanza da pranzo era aperta.
Seguimmo G.7 al primo piano. Avevo il cuore stretto, non so perché, non pensavo più alla brillante operazione di polizia o alla mia curiosità.
G.7 camminava deciso, i suoi gesti erano esatti, misurati. Aprì una porta e lo udimmo brontolare fra i denti: «Accidenti!».
Scorsi nella fessura una parte della stanza, un pezzo di tappeto a disegni verdi su fondo rosso, una forma stesa a terra.
Il mio compagno sibilò incredulo: «Una palla in pieno petto!».
«Aubier!», gridò, quasi in un rantolo. «Telefona subito al Capo perché faccia il necessario. Io attendo qui le autorità».
«Devo dirgli che è morto?».
«Beninteso».
Uscito Aubier, lo sguardo di G.7 si posò con una specie di sordo rancore sulla mia persona. La mia presenza, evidentemente, lo importunava.
Cominciò poi, com'era suo costume, a esaminare attentamente il luogo del delitto: il suo sguardo fotografava letteralmente i più piccoli particolari della stanza. Il pavimento era di tavole di abete, coperto di mozziconi di sigarette con il bocchino di cartone, come usano fumarle i russi. Il letto era disfatto, il cadavere era steso lì vicino in pigiama, come se l'avessero abbattuto mentre stava per coricarsi. Sul comodino notai subito un magnifico samovar d'argento e una tazza di finissima porcellana istoriata.
«Era stato generale nell'altra guerra, non è vero?», domandai macchinalmente.
In quel momento entrò Aubier annunciando: «Il Capo verrà subito con le autorità, principale. Ho appostato intanto due guardie intorno al villino; non si sa mai».
Vedendosi guardato con curiosità, aggiunse con un certo orgoglio: «L'assassino non ha potuto uscire! Del resto, ho esaminato il terreno bagnato del giardino... Le sole impronte sono quelle della vittima e le nostre».
Erano passati dieci minuti da quando eravamo nella stanza. Udii a un tratto G.7 sospirare come tra sé: «Naturalmente la rivoltella non c'è!».
Dunque, riflettei stupefatto, il mio amico aveva impiegato dieci minuti a cercare l'arma del delitto, mentre io mi ero subito accorto che le mani del morto erano vuote e che non gli si vedevano rivoltelle accanto.
«Sei sicuro, matematicamente sicuro», domandò G.7 all'agente Aubier, «che ieri sera quando ci siamo appostati qui non c'era nessuno nel villino?».
«Si capisce, principale! Ho frugato scrupolosamente la casa! È facile perquisire gli immobili di questo genere, fatti in serie. Non esistono nascondigli in queste case, come nelle vecchie costruzioni».
«Il generale è rientrato solo; l'abbiamo visto noi», brontolò ancora il mio compagno. «Solo!».
G.7 continuava a contemplare con le pupille fisse la camera del delitto, che aveva quattro uscite: la porta e le tre finestre, chiuse. Non c'era neanche il caminetto: un tubo di stufa che saliva dal pianterreno attraversando il pavimento rigava uno dei muri e usciva dal tetto.
«Andiamo!», disse infine G.7.
Non estrasse nemmeno la rivoltella. Me ne stupii. Dopotutto potevamo anche trovarci davanti da un momento all'altro l'assassino. Per conto mio confesso che infilai la mano nella tasca dei calzoni per afferrare il calcio freddo della mia Colt.
Il sopralluogo non ci rivelò niente. Al pianterreno c'erano soltanto la stanza da pranzo, un salottino vuoto e una cucina. Nessuno era nascosto in quelle stanze e nessuno, era facile capirlo, avrebbe potuto nascondersi. Rapidamente G.7 uscì dal villino, si chinò sul terreno; fece, piegato in due, il giro del giardinetto. «Aubier ha ragione!», gridò quando ci ebbe nuovamente raggiunti. «Nessuno è uscito dal villino».


Si volse verso di me: «Capisci! Nessuno è entrato! Nessuno è uscito! In questa casa c'è soltanto un morto! Ma si tratta di un uomo ucciso dal proiettile di una rivoltella. E la rivoltella è sparita». Senza una parola risalì le scale...
(continua nella pagina seguente)

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