L'ultimo miglio della supremazia americana si sposta sempre più in là. Non è finita, no. Il declino è un auspicio di molti e una certezza di troppi. La realtà dice altro e parla ancora di quello che ci piace: libertà, democrazia, iniziativa, creatività, ricchezza, voglia di futuro. Parla cioè dell'America. La Cina può sperare, ma deve aspettare comunque. No way adesso, perché il XXI secolo sarà ancora americano, come dice il sottotitolo di L'aquila e la farfalla (Rizzoli, pagg. 176, euro 18) scritto da Maurizio Molinari. Nella nuova era americana c'è spazio per tutti, anche per quelli che in questi anni hanno profetizzato a lungo la teoria del declino dell'Occidente e quindi anche degli Stati Uniti. Pareva che la rincorsa economica della Cina fosse cavalcata da tutti gli antiamericani del pianeta, finalmente vicini allo scopo di una vita: poter dire, cioè, che l'America non fosse più prima potenza planetaria. Sconfitta dal Dragone e umiliata da se stessa.
Errore. Il Pil racconta molto, ma non tutto. E allora Pechino potrà crescere più di Washington, ma è ancora lontana da prendersi il mondo. C'è l'America, ancora. C'è e non ha alcuna intenzione di spostarsi. C'è e si vede. Perché un Paese che in meno di dieci anni subisce la ferita immensa dell'11 settembre 2001 e poi la crisi economico-finanziaria cominciata col crac Lehman del 15 settembre 2008 e si riprende vuol essere ancora la guida del pianeta. E lo è, checché ne dicano i suoi detrattori. La capacità di risollevarsi dalle difficoltà è uno dei punti fondamentali del libro di Molinari: «Qualsiasi altra nazione sarebbe crollata. L'America ha reagito alla sua maniera: con calma, determinazione, metodo e soprattutto con la capacità di resistere alle difficoltà (...). Tutto ciò conferma che l'America è una comeback nation che reagisce lentamente: prima esamina senza isterismi le ferite subite e gli errori commessi, poi pianifica le contromisure e quindi inizia a metterle in atto».
Allora altro che declino. D'altronde il Novecento era già stato un'eterna caccia alla fine dell'America. Prima avrebbe dovuto sconfiggerla l'Unione Sovietica o con le bombe o con l'avanzata comunista in Europa, così forte da isolare gli Stati Uniti nel loro territorio. Caduto il muro, la rincorsa dell'antiamericanismo si trasferì sull'economia: tra la fine degli anni Ottanta e l'inizio dei Novanta, avrebbe dovuto essere il Giappone a soppiantare gli Usa. La storia ha sconfitto i falsi profeti e anche i tifosi del tramonto a stelle e strisce. Non è stato sufficiente, però. Intellettuali, saggisti, storici, filosofi, sociologi hanno inseguito il mito della fine della supremazia americana anche di recente, agevolati proprio dall'arrivo sullo scenario della nuova Cina, soggetto sconosciuto fino a vent'anni fa. Le previsioni sulla data di scadenza del secolo americano sono state molte. Declino, declino, declino, si è ripetuto per molto tempo come fosse una via di mezzo tra un mantra e un presagio. Una anno e mezzo fa Foreign Policy pubblicò un saggio di Zbigniew Brzezinski titolato After America. Per l'ex segretario di Stato di Jimmy Carter non c'erano speranze: gli Stati Uniti erano il passato e si sarebbero dovuti adattare alla nuova realtà. A cavallo tra la fine del 2010 e l'inizio del 2011 Gideon Rachman scrisse, sempre su Foreign Policy e poi sul Financial Times: «La fine dell'era americana è nei fatti ed è già cominciata».
Ciò che i declinisti trascurano è che l'America ha sempre avuto un elettroencefalogramma movimentato. Alti e bassi, ovviamente sempre molti più alti. È stata vicina a diversi tracolli economici, politici e militari, però ce l'ha sempre fatta. L'errore dei teorici della fine del secolo Usa è collegare le défaillance di politica estera o economica con il declino del Paese. Per dirla con le parole di Molinari: «La forza intrinseca dell'America sta proprio nella capacità di essere, senza interruzione, il motore di cambiamenti in grado di condizionare - nel bene come nel male - altri Paesi e altri popoli. Tali cambiamenti si originano da una dinamica interna che è spesso indipendente dalla Casa Bianca: il presidente si trova non di rado a governare processi che nascono lontano da Washington, e ciò spiega perché la potenzialità di rinnovamento che la nazione esprime non sempre coincide con la sua leadership politica».
Significa che non vale l'equazione: Obama è in declino quindi l'America è in declino. Anzi. Quest'America non lo è proprio. Sta cambiando e, secondo Molinari, si sta tenendo stretto il ruolo di guida del pianeta. Le capacità di innovarsi, di investire, di sperimentare sono lo specchio di una terra viva, forte, capace. Una terra che resta il maggior laboratorio di idee del pianeta. Le prospettive economico-finanziario-strategiche che arrivano dalla Silicon Valley, la scoperta e lo sfruttamento di forme di approvvigionamento energetico nuove come lo shale gas, la trasformazione della società, l'ampliamento dei diritti e quindi delle libertà. C'è un Paese che si muove, indipendentemente dal suo Presidente. L'economia seguirà, di conseguenza: «Boom energetico, dominio assoluto nell'Information technology e liberalizzazione dei commerci promettono all'America di tornare in vetta, continuando a trainare il Pil globale».
Cioè siamo ancora in piena epoca americana. Ci siamo e al diavolo i fanatici del declino a ogni costo, quelli che hanno preso come modello di riferimento il monologo di Will McAvoy, nella prima puntata di The Newsroom in cui distrugge l'America e l'idea che sia ancora la «migliore nazione del mondo».
Invece è così: è e resta la migliore possibile. Con tutti i suoi presunti difetti, raccontati nei dettagli in ogni angolo del pianeta: l'aspirazione al consumismo, l'atteggiamento da impero contemporaneo, l'arroganza militare.
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