Il Libanese alla conquista di Roma

Torna il personaggio di De Cataldo: questa volta studia da delinquente tra i rivoluzionari da salotto

Il Libanese alla conquista di Roma

«A me nun me pare giusto che l’oro sta tutto da ’na parte e la merda tutta dall’altra». Così parlò il Libanese prima di diventare il Libanese, ovvero il capo della banda della Magliana, l’ottavo re di Roma, il leader capace di tenere a bada la camorra e la mafia. La «carriera» del criminale trasteverino inizia con questa constatazione, che non ha niente di rivoluzionario, anche se potrebbe sembrare. Dietro alla ricerca del potere, e in subordine dei soldi, non c’è alcuna rivendicazione di tipo sociale. Il Libanese non vuole sovvertire le classi, non vuole entrare neppure nell’alta borghesia, che disprezza. Il Libanese vuole essere quello che detta le regole, facendo leva sulla legge della strada appresa nelle borgate «dove capiscono subito se sei pecora o leone».

Il Libanese, personaggio ispirato al vero boss Franco Giuseppucci, è il protagonista di Romanzo Criminale (Einaudi) di Giancarlo De Cataldo, bestseller del 2002, adattato per il cinema da Michele Placido (2005) e per la televisione da Stefano Sollima (due serie in onda su Sky tra il 2008 e il 2010). Il Libanese, così come i suoi soci Dandi, Bufalo e Scrocchia, sono diventati, a sorpresa, veri e propri fenomeni di costume. Merito soprattutto della saga televisiva, un completo successo in termini artistici, assai raro in un campo dominato dalle produzioni straniere. Naturalmente, c’è chi ha storto il naso, con qualche ragione, come sempre accade quando diventano «cult» delinquenti di strada, come i componenti della Magliana ancora oggi al centro di fatti sanguinosi di cronaca, resi affascinanti dalla trasposizione letteraria o cinematografica. Ma c’è anche chi ha sottolineato un residuo di complottismo, giustificato solo in parte dagli atti giudiziari, nella trama ideata dal giudice-scrittore, in cui la Magliana, lentamente, diventa lo strumento di una parte «deviata» dello Stato.

Comunque sia, martedì prossimo, a dieci anni esatti da Romanzo criminale, uscirà il romanzo prequel delle vicende che hanno appassionato mezza Italia: Io sono il Libanese di Giancarlo De Cataldo (Einaudi, pagg. 136, euro 13). Siamo nel 1976, qualche mese prima rispetto ai fatti narrati nel «libro madre». Il Libanese, in carcere, costruisce i suoi primi contatti col mondo della mala che conta, la camorra in particolare. Roma è terreno di conquista: i marsigliesi sono stati sgominati, napoletani e siciliani esitano, la figura di maggior spicco è il Terribile, da sempre nemesi del Libanese, a capo di un gruppo di scagnozzi di basso profilo.

Lo scenario è decadente, la vecchia guardia si è rammollita: «Il Libanese afferrò un bicchiere e si guardò intorno. Luci cangianti, musica soffusa, coppie che si strusciavano nei séparé, allegre comitive che bivaccavano ai tavoli, troie, gente di rispetto, mogli, cavalieri, guardie del corpo, risate sopra le righe. Roma». Il Libanese ha bisogno di trecento milioni per entrare in un grosso affare in compagnia degli amici di sempre (Bufalo, Dandi, Scrocchia; il Freddo compare di sfuggita in una sola pagina del libro). Ma i soldi non si trovano. In compenso trova l’amore di Giada, una ricchissima studentessa tutta collettivo e socialismo. Inizia così il breve viaggio del Libanese nelle grandi famiglie più o meno aristocratiche (e di sinistra) della capitale. Queste sono le pagine più divertenti, e forse significative, del libro: al Libanese la gente del movimento sembra «due passi oltre gli impasticcati e a un passo dagli zombi».

Giada è convinta che lei e il Libanese (che in casa ha il busto del Duce e altra «fuffa fascia») stiano «dalla stessa parte» ma si sbaglia. I negozietti «alternativi» dove Giada fa acquisti secondo il borgataro sono solo luoghi impestati da «fricchettoni con la barba bianca e il codino che puzzava di frocio lontano un miglio». Il giro di Artisti «compagni» frequentato dalla ragazza è formato da debosciati tanto pretenziosi quanto tossici: per il Libanese sono i tipi ideali da spennare.

Al Libanese non sfugge l’ipocrisia di fondo di Giada: «Avrebbe voluto dirle: davvero i quattrini di papà ti fanno tanto schifo? Sei proprio disposta a buttare tutto al vento pe’ sta rivoluzione? Ma che è ’sta rivoluzione? Spiegagliela a uno che è nato in un caseggiato popolare dove la mattina devi fa’ la fila per il cesso comune e tua madre si spacca la schiena a lavare i panni dei signori». Si arriverà alla rottura e anche peggio, ma il Libanese alla fine scoprirà di avere qualcosa in comune con Giada: «Si vergognavano tutti e due. Lui di non avere niente, lei di avere troppo».

De Cataldo coglie un passaggio interessante, messo in rilievo di recente anche da autori come Walter Siti.

L’ideologia non prende piede a Trastevere, il comunismo non ha alcun senso agli occhi di un borgataro: ricchi e poveri vogliono la stessa cosa. I soldi. Qualcuno, a esempio il Libanese, è disposto a sparare per averli. Messaggio ambiguo? Sì, come il resto della saga a venire.

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