Le città occidentali non avrebbero motivo di esistere senza la linfa vitale che le costituisce alla radice: la libertà degli individui. Per come le conosciamo, infatti, le città sono nate in seno all'Europa, dopo l'anno Mille, sopra una regola sovrana: i cittadini sono accomunati dal rispetto delle leggi, ma sotto queste leggi, l'orizzonte della speranza individuale può essere illimitato, come illimitati possono essere l'ascesa sociale, il desiderio di affermazione di propri valori, interessi o azioni.
Quasi mai il dibattito contemporaneo lega il tema della libertà alla città, eppure la libertà di movimento, di associazione e iniziativa individuale, ha avuto forse il suo snodo fondamentale proprio nel momento in cui, nel XI secolo, è nato il senso di appartenenza a una civitas. È dunque interessante il libro collettaneo, a cura di Stefano Moroni, La città rende liberi. Riformare le istituzioni locali (Istituto Bruno Leoni). La storia delle città occidentali infatti non è stata una progressiva apertura all'iniziativa personale. Come scrive Carlo Lottieri, in un primo tempo nel Medioevo si costituisce la città di mercato, ovvero un luogo-rete di rapporti economici e giuridici, scambi e contratti, basato su un'idea forte del soggetto individuale, in cui ascese e cadute sociali sono molto veloci, in virtù del fatto che il mercato opera una continua riorganizzazione dei ruoli e delle strutture produttive. Alla città di mercato, però, si va affiancando e poi sovrapponendo la città di potere, che diviene fulcro di quel controllo politico che l'élite governante riesce a esercitare. Quando lo Stato moderno si impone, si assiste a un crescente accentramento del dominio politico, che attraverso amministrazione, burocrazia, apparato pubblico, riduce al minimo gli spazi della iniziativa personale. Arrivando al nostro tempo in cui, come scrive il curatore Moroni, docente al Politecnico, «le città occidentali novecentesche hanno subìto una drastica riduzione delle libertà individuali» giacché sono state «ingabbiate da forme iper-vincolistiche di pianificazione urbanistica e da innumerevoli, minuziosi e capziosi regolamenti».
Dunque come emancipare le libertà personali dalla programmazione politico burocratica? Significative e audaci sono le proposte che Filippo Cavazzoni elenca per svincolare le politiche culturali di una città dall'ingombranza dello Stato e dall'arbitrarietà dei governi locali nello scegliere chi sostenere. Anzitutto: l'intervento pubblico a beneficio della cultura deve essere più neutrale possibile; dunque meglio fornire infrastrutture, allestimenti e spazi, piuttosto che sussidi in denaro a specifiche istituzioni culturali. Già questa proposta metterebbe in crisi quegli enti che sopravvivono soltanto grazie a corposi finanziamenti a spese di tutti. Occorre non far dipendere le istituzioni culturali dai finanziamenti pubblici, giacché questo disincentiva la ricerca di fondi per altre vie e «un sussidio pubblico prolungato nel tempo crea una situazione impari fra un'istituzione culturale già esistente, che gode del sostegno pubblico, e possibili altre istituzioni che potrebbero nascere». La proposta di Cavazzoni è adottare un metodo anglosassone, ovvero un ente riceve soldi pubblici pari a quella che reperisce privatamente. Oppure, nel caso di spese ingenti, si può scegliere un referendum cittadino, per capire i desideri della collettività.
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