L'illusione peggiore? Pensare di vivere senza avere illusioni

Dopo l'ozio e l'egoismo, è tempo di rivalutare le nostre chimere travestite da speranze. Imparando da Demostene, Balzac e Marguerite Yourcenar

L'illusione peggiore? Pensare di vivere senza avere illusioni

Da una decina d'anni a questa parte, Armando Torno è andato costruendosi una sorta di filosofia personale e portatile che lo mettesse al riparo dai guasti della contemporaneità. Cominciò prendendosela con «la truffa del Tempo», la frenesia che ci uccide in una corsa il cui traguardo finale è la nostra irrimediabile e irredimibile scomparsa; continuò con le «virtù dell'ozio», antidoto indispensabile contro il logorio della vita quotidiana; si perfezionò nell'«elogio dell'egoismo», orgogliosa dichiarazione di sovranità individuale in un'epoca in cui il pensiero unico dei diritti dell'uomo sembra consegnarci al tartufismo più ipocrita e più servile. Adesso il panorama si apre su questo Elogio delle illusioni (Bompiani, pagg. 126, euro 20) che è una summa e insieme un viatico per esistenze che non rinunciano alla speranza pur sapendo benissimo che quest'ultima resta una chimera. Torno è un robusto pensatore realista, da non confondersi con i conservatori né tanto meno con i reazionari. La sua stella fissa è semmai Montaigne, quello che di fronte alla vanagloria e alla bramosia, di conquista, sesso, denaro, ammoniva di ricordarsi sempre che, per quanto si possa pensare di essere in cima alla scala sociale, restiamo seduti sul nostro posteriore...
Proprio perché realista, Torno sa che il mondo sarebbe insopportabile se gli uomini non concorressero a creare una sorta di cortina fumogena con cui nascondere e/o alleviare le brutture: sono le illusioni che ci consentono di andare avanti, e dalla politica all'amore, dalla religione all'economia, non ne possiamo fare a meno. «Ogni giorno esse ci accompagnano. Talvolta si vestono di sogni e ci scortano, tenendo lontani gli incubi. Con esse amiamo e odiamo, la loro fedele presenza ci porta dal pianto al riso. Senza di esse la noia e la paura ci assalirebbero. Ogni uomo si è illuso o forse è soprattutto un illuso. Da sempre. E continua a esserlo». Torno non è un misantropo, sul genere dello straordinario Alceste creato da Molière. Caso mai ne è l'esatto contrario, perché mentre questi fa della strage delle illusioni la propria battaglia, sa benissimo che non solo è una battaglia persa, ma è soprattutto una battaglia sterile. Le illusioni sono come l'aria che respiriamo e senza saremmo morti ancor prima di cominciare a vivere. Costruito come un'intelligente e ragionata silloge di citazioni fra loro legate con il filo di una cultura sterminata quanto stravagante, nel senso che spazia fra seminati scarsamente arati e ancor meno popolati, Elogio delle illusioni è un baedeker dell'esistenza, una guida turistica del saper vivere. Prendiamo l'amore, che giustamente tiene a battesimo e introduce il suo aureo libretto. «L'amore offre i migliori risultati quando non tiene conto dei freni del ragionamento, o meglio quando li usa male. È un inganno della natura attraverso il quale la specie si perpetua». Prendiamo la politica, vera e propria caccia e pesca delle illusioni, cartina di tornasole della necessità di credere dando credito alla categoria più screditata, quella dei politici, appunto. Come diceva al riguardo Demostene, «nulla è più facile che illudersi perché ciò che ogni uomo desidera, crede anche che sia vero». Ne deriva che «da cinquemila anni circa, da quando Menes unificò l'Egitto e diede avvio alla storia dinastica del paese del Nilo, si possono registrare circa un migliaio di trattati di pace. Uno ogni cinque anni, mese più mese meno. E tutti sono stati sostanzialmente disattesi. Un'immensa fabbrica di illusioni». E il progresso? Come diceva quel tale, «forse andava bene una volta, ma è durato troppo». E non ha torto Henry de Montherlant quando nel Ventaglio di ferro scrive: «Dopo Sesostri, nulla di ciò che è importante ha fatto un passo. Tutto ciò che non è importante ha fatto passi giganteschi». È anche per questo che, contradditoriamente, ci illudiamo su un passato migliore del presente che ci tocca vivere, o su un futuro «dalle magnifiche sorti e progressive», per dirla con Leopardi, in grado di fare giustizia dell'ora e adesso che ci tocca sopportare. Chateaubriand scrisse le Memorie d'oltretomba illudendosi che la letteratura, e quindi la memoria, potessero sconfiggere il tempo, e l'oblio che esso porta con sé. Le illusioni perdute di Balzac raccontano la fine di un'epoca e degli uomini che si ostinavano a volerla incarnare. Marguerite Yourcenar definì le biblioteche, pubbliche e private, «un granaio contro l'inverno dello spirito». Ecco tre grandi illusi, consapevoli di esserlo, ma non per questo disposti a lasciarsi convincere della infecondità delle loro illusioni. Il paradosso della moltiplicazione e della velocizzazione della cultura, sta d'altronde nel fatto che ormai «abbiamo a disposizione tutto, ma quello che ci manca è il tempo per leggere, per capire o anche semplicemente per orientarci nell'oceano di offerte che ogni giorno ci bombardano». Lo leggerò quando sarò in pensione, ci sorprendiamo a dire, dando vita a una doppia illusione, letteraria e pensionistica...

«Man mano che passano gli anni - nota Torno - si ha sempre più bisogno di aumentare le dosi di verità a disposizione di questo mondo e di illudersi con maggior coscienza. Certo, senza rinunciarvi. Perché siamo condannati (o graziati) a vivere e a morire di illusioni».

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