Cultura e Spettacoli

L'Italia (culturale) è un Paese per zombi

Un premio assegnato a un autore defunto, in una cerimonia officiata da due comici che non fanno ridere

L'Italia (culturale) è un Paese per zombi

Non è un paese per vecchi, è un paese per zombi, ormai a ogni livello: economico, politico, sociale, direi perfino sessuale, gli intellettuali raggiungono il massimo dell'erezione per le arringhe della Boccassini. Figuriamoci la cultura, già mortissima da quando è nata.
Bisogna avere il coraggio di ammetterlo: prima una lagna di libri cuore, cavalline storne di qua, trombette rinascimentali di là, un affannoso andare a carretta della cultura europea, un rigoglioso fiorire di letteratura nata morta, neppure l'Ortis è originale, è copiato dal Werther. Dal dopoguerra in poi stendiamo un velo funebre pietoso, i giganti sarebbero gli uomini e no di Vittorini, i riccetti di Pasolini, gli indifferenti Moravia, con intorno decenni di narrativa della Resistenza, o della provincia, o del ritorno alla campagna. Il massimo dell'eros La ragazza di Bube di Carlo Cassola, Premio Strega. Il massimo dell'originalità internazionale Italo Calvino, un epigono di Borges.
Quindi, cari miei, non stona affatto che il Premio Campiello quest'anno sia stato dato a Ugo Riccarelli, e direttamente postumo, lui se lo meritava. Non che fosse vivissimo quando era vivo, ma almeno respirava, poteva presenziare, poteva andare lì a fare due salamelecchi e deglutire una tartina.
Eppure, a pensarci, il premio al morto è l'unico premio con un senso culturale in Italia, tanto che siano premiati da morti o da vivi cambia poco, quasi non si nota la differenza, almeno non vediamo la faccia da morto del morto premiato da vivo, nella tomba ci fanno tutti una figura migliore. In compenso a officiare la cerimonia c'erano due comici, Neri Marcoré e Geppi Cucciari, i quali ormai non fanno ridere neppure i morti ma non ha importanza, hanno tutti il sorriso rigor mortis stampato sulla faccia come quello di Fabio Fazio.
Anche al Premio Strega d'altra parte il criterio è questo. Infatti mica a suo tempo premiarono Scuola di nudo, per esempio, unico vero capolavoro di Walter Siti che magari, incoraggiandolo, ne avrebbe scritti altri. Al limite sarebbe andato bene premiare pure Troppi paradisi, ma era ancora un romanzo troppo vivo, troppo poco putrescente, con qualche barlume di universalità malgrado il pasolinismo.
In Italia i grandi libri li affossano, li seppelliscono, nessuno ne sa niente, mentre quando cominci a fare schifo, a emanare quel tanfo di decomposizione, quando ti si formano le ragnatele tra le parole, quando racconti una storia già scaduta mentre va in stampa, ti premiano subito, sei dei loro.
Ovviamente, in quanto zombi, devi essere uno zombi impegnato e di sinistra, non c'è bisogno di ricordarlo. Finché Siti, studioso di Pasolini e etichettato come neo-pasoliniano, non ha scritto il romanzo giusto per il cimitero italico, nessun grande riconoscimento. È stato premiato senza esitazioni non appena ha pubblicato il suo romanzo più provinciale, più infognato nel sociale, nella crisi economica, più vittimistico, più lagnoso, più arreso perfino nel titolo Resistere non serve a niente. E via, fatto fuori pure Siti, altro zombi libero a piede libero. Unico barlume di vitalità del Premio Strega è stato Aldo Busi, escluso ingiustamente: era talmente morto da aver dedicato il libro a Ingroia e da pubblicare il prossimo libro con il Fatto Quotidiano, peggio di così non si muore ti prendono nel casting di The Walking Dead risparmiando sugli effetti speciali. Esequie di Marco Travaglio, immagino, e amen.
Post (mortem) Scriptum: Non sarà così nel cinema, uno spererebbe. Il Leone d'Oro è stato assegnato al film di Gianfranco Rosi Santo GRA. Non può essere roba dagli orizzonti provinciali e neorealisti, mi sono detto, stiamo parlando della Mostra Internazionale d'Arte Cinematografica, una vetrina per l'Italia che costa 12,7 milioni di euro (di cui 7 di denaro pubblico). Chissà cosa significa d'internazionale «GRA», mi sono chiesto. E dopo aver appreso che è un «documentario atipico girato con attori non professionisti», come ai tempi di Pasolini e del primo Moretti, scopro che «GRA» significa «Grande Raccordo Anulare». Ora, bello o brutto che sia il film, non è questo il punto, già a Viterbo avranno qualche difficoltà a capire il titolo. Prevedibile risonanza zero.

Comunque non ho visto il film, non ho seguito la premiazione, e non mi ricordo più se Rosi è vivo o morto, quindi non dico altro.

Commenti