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L'Italia si può salvare ma la scuola (libera) deve essere la priorità

L'abolizione del valore legale del titolo di studio sprigionerebbe forze nell'istruzione e nel mondo del lavoro. Ecco quali, punto per punto

L'Italia si può salvare ma la scuola (libera) deve essere la priorità

Un tempo a scuola andavano in pochi e la scuola poteva concedersi il lusso di un'offerta limitata. Oggi a scuola vanno tutti e la scuola ha la necessità di offrire una molteplicità di risposte perché i bisogni sono tanti e diversi. Ma la «scuola di Stato» non è in grado di fornire queste risposte e deve confidare nell'esistenza di una scuola privata - ossia una scuola paritaria gestita da privati - che se non esistesse bisognerebbe inventare. La scuola statale, pur cresciuta in modo elefantiaco (è la prima azienda di Stato), non è capace per la sua stessa struttura napoleonica o ministeriale di pensare e fornire le molteplici risposte tipiche di una società pluralista. Il maggior tappo a questa situazione è rappresentato dal valore legale del diploma che ha esercitato il suo potere più nefasto con il declino della scuola di Gentile e la nascita della sempre «sperimentale» scuola di massa. Infatti, quando la scuola statale era ristretta nelle sue dimensioni, lo Stato attraverso l'autorevolezza dei professori e il sistema degli ispettori era in grado di assicurare controllo e limitare i danni del valore legale che per sua natura tende alla mediocrità della standardizzazione. Ma con la scuola di massa lo Stato ha perso anche la sua autorevolezza e così la stessa scuola di Stato si è trasformata in una scuola sindacale in cui l'ideologia egualitaria ha finito per danneggiare proprio i più bisognosi. Einaudi diceva: «Sono vissuto per quasi mezzo secolo nella scuola e ho imparato che quei pezzi di carta che si chiamano diplomi di laurea, certificati di licenza valgono meno della carta su cui sono scritti». Se era vero al tempo di Einaudi, come stanno le cose nel nostro tempo? Carta straccia. Non resta che una sola strada: abolire il valore legale dei titoli di studio. Le conseguenze, col tempo, sarebbero salutari. Eccole.

La prima conseguenza è la svalutazione dei titoli e la rivalutazione dell'insegnamento e dell'apprendimento. Se i titoli non sono più statizzati, allora, il valore ritorna alla scuola effettiva: alla preparazione degli insegnanti e alla volontà dei discenti di apprendere, capire e migliorarsi. La cultura ritorna ad essere una necessaria conquista e non il possesso legale di un diploma.

La seconda conseguenza è la sostituzione degli esami di licenza con gli esami di ammissione. Non si fanno esami per uscire dalla scuola ma si fanno esami per entrare a scuola. Gli studenti scelgono la scuola da frequentare e le scuole scelgono gli studenti che possono frequentarle. Alla fine del ciclo di studi non ci sono esami di Stato ma la semplice conclusione del ciclo scolastico. Il titolo non ha alcun valore legale da spendere nel lavoro, nell'amministrazione, nell'accademia. Per accedere all'università, come per accedere agli uffici pubblici e alle professioni, si devono superare degli esami in cui ciò che conta è la preparazione effettiva, l'amministrazione, la professionalità.

La terza conseguenza è che non avendo il titolo di studio un valore legale, tutti i cittadini, che hanno i requisiti di legge, possono accedere al pubblico impiego e alle professioni superando severi esami di Stato non più scolastici ma extra-scolastici. Qui è il ruolo di garanzia e controllo dello Stato che attraverso la selezione e obiettivi precisi assicura a se stesso impiegati e dirigenti e, al contempo, restituisce la scuola e l'università alla formazione e alla ricerca.

La quarta conseguenza è la fine degli Ordini professionali: per esercitare una professione si supera l'esame di Stato ma non è necessario iscriversi a un Ordine - corporazione - che è solo una libera associazione, a questo punto non più d'ostacolo al cambiamento, agli sviluppi e alla modernizzazione della professione stessa.

La quinta conseguenza è la rivalutazione dei professori: non sono più impiegati dello Stato ma liberi docenti che offrono la preparazione e la capacità di insegnamento alle scuole che sono libere di sceglierli e diversamente retribuirli.

La sesta conseguenza - ma, si è capito, la numerazione è puramente didascalica - è la fine del monopolio dell'istruzione che, non essendo più ministeriale, ha nuovamente la sua natura pubblica: l'insegnamento è effettivamente libero dallo Stato. La scuola riacquista la sua natura plurale, per cui ci sono le scuole e non la scuola e quindi c'è varietà nei programmi, nella didattica, nell'inventiva, nella creatività, nelle iniziative. La scuola esce dal ministero, dal governo, dal partito, dal sindacato - o se volete il ministero, il governo, il partito, il sindacato escono dalla scuola - e la scuola ritorna a scuola e alla libertà che le appartiene. La scuola ritorna ad essere ciò che, senza le fissazioni pedagogiche, è sempre stata: un laboratorio in cui l'insegnamento e l'apprendimento s'incontrano con reciproco interesse e profitto. Con una scuola finalmente libera anche lo Stato ha la possibilità di ritornare a fare lo Stato, perfino con una scuola di Stato che non essendo più il parametro universale della sapienza ma solo una scuola tra le scuole può assolvere al meglio il suo compito: garantire il diritto allo studio là dove è negato.

Attraverso la scuola, lo si voglia o no, passa l'idea di libertà di una nazione. La libertà della scuola è la stessa coscienza della libertà a cui si può innalzare una democrazia. La scuola libera garantisce l'esistenza della scuola di Stato mentre l'esistenza monopolista della scuola statale non tollera la scuola libera. La libertà degli italiani, che da tempo si dibattono in una profonda crisi della vita civile e democratica, passa attraverso la libertà della scuola.

Fin quando non l'avranno, fin quando non la vorranno, non saranno pienamente liberi.

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