Pubblichiamo, per gentile concessione dell'editore Mondadori, uno stralcio del libro Magazzino 18. Storie di Italiani esuli d'Istria, Fiume e Dalmazia scritto da Simone Cristicchi con Jan Bernas (pagg. 160, euro 16,50) che sarà nelle librerie da oggi.
di Simone Cristicchi
Pensate alla vostra casa, al vostro quartiere, quello dove siete nati e cresciuti. Pensate adesso alla vostra città. Provate a sentire il profumo delle strade, i suoni, i rumori, a vederne i colori, i negozi, la gente. Quella, semplicemente, è la vostra terra. La riconoscete quasi per istinto. Ne avete imparato il dialetto, le tradizioni, i modi di dire. Le feste, i canti, i luoghi degli appuntamenti, gli amori. Immagini precise, nitide, luoghi che, come una carta di identità, vi dicono chi siete e da dove venite. La vostra terra...
Provate adesso a immaginarla in silenzio. La città, il quartiere, le piazze, le chiese, i negozi... senza più rumori, odori, parole. Senza più persone. Il vuoto. Il deserto. Il silenzio. Un silenzio irreale che avvolge e ovatta tutto. Il vostro mondo che diventa altro. Lentamente si spoglia di voi. E voi di esso. All'improvviso vi sentite estranei, come alieni in quella che è la vostra terra, perché nel frattempo altri sono arrivati al posto vostro. Sembra impossibile, oggi, soltanto pensare a una Napoli vuota, senza napoletani, a una Firenze deserta, senza fiorentini, a una Roma silenziosa, senza romani. Settant'anni fa questo è accaduto, a Fiume, Pola, Zara, Capodistria, Umago, Rovigno, Buie, Dignano, Parenzo, Pirano, Cherso, Lussino. Un'intera regione svuotata della propria essenza. Uomini e donne costretti a lasciare la propria terra, non per fame o per il desiderio di migliorare le loro condizioni, ma perché non si poteva vivere senza essere italiani.
Il luogo al centro di questo libro non è un ufficio oggetti smarriti, né la bottega di un restauratore o un mercatino dell'antiquariato. Siamo al confine nordorientale dell'Italia, esattamente nel Porto Vecchio di Trieste. E questo è il «Magazzino 18». Dove il tempo si è fermato, congelato in un silenzio che mette a disagio. Somiglia al panorama lasciato da un terremoto devastante. Questa catasta in realtà è un vuoto, il simbolo di un'enorme amnesia. È ciò che resta di una delle più grandi tragedie della storia italiana del XX secolo. \
Quando, nel 1947, il Trattato di pace consegna alla Jugoslavia un'intera regione italiana l'Istria, Fiume e Zara l'Italia paga il prezzo di essere uscita sconfitta dalla Seconda guerra mondiale. Anzi, a pagare non è l'Italia, ma sono gli italiani che da generazioni, da secoli, vivono in quelle terre: uomini, donne, anziani, bambini che preferiscono perdere tutto pur di fuggire da una realtà nuova, diversa, percepita come ostile e pericolosa: la realtà della Jugoslavia comunista.
L'esodo degli istriani, fiumani e dalmati: così la Storia chiama questa sua pagina dimenticata, che ancora oggi in pochissimi conoscono. Quasi che l'Istria fosse una regione fantasma, una specie di Atlantide sprofondata nel mare. Nell'esodo, come in una lenta emorragia durata dieci anni, le persone si portano dietro tutto quello che possono, nella speranza di ricostruirsi un'esistenza dall'altra parte del mare, in patria, oppure, chissà, di tornare un giorno là dove sono nate. E così, il contenuto di intere case e quartieri viene prima schedato, imballato, spedito, e poi stipato nei magazzini del Porto Vecchio di Trieste, in attesa.
Prima ancora che nel «Magazzino 18», le masserizie sono contenute nel Magazzino 22 poi nel 26 del Porto Vecchio. Nel 1987 giacciono ancora nel Magazzino 22, che deve essere demolito per dare spazio ad altri progetti poiché in quel momento non esiste alcun vincolo: le masserizie non sono ancora tutelate dalla Sovrintendenza come lo sono oggi, ma sono competenza della prefettura. In quello stesso anno cade il quarantennale dall'esodo e, alla notizia della prossima demolizione del magazzino, gli esuli iniziano a temere che le loro cose possano andare distrutte. Non conta chi siano i legittimi proprietari: è inaccettabile disfarsene perché quella è la concreta testimonianza della tragica vicenda che li ha visti protagonisti. La prefettura di Trieste decide allora di donarle al neonato IRCI, Istituto Regionale per la Cultura Istriano-fiumano-dalmata, e di concedere un altro magazzino, il 26 appunto. Mancando le risorse economiche, il trasloco è realizzato da appassionati volontari, un estenuante lavoro di facchinaggio, avvenuto in tempi non rapidi, data la notevole quantità di mobilio, pesante e ingombrante. In corso d'opera, una notte, scoppia un incendio nel Magazzino 22, se doloso o fortuito non si sa. Non si parla di «responsabili». Nel rogo, parte delle masserizie va distrutta, la parte recuperata è invece trasferita nel 26. Già all'epoca il materiale è deperito e non più riconoscibile, peraltro ritenuto a tutti gli effetti abbandonato e di nessun valore. Risale infatti al 1978 l'ultimo appello pubblico per ritirare gli oggetti. Oltre quella data non si potrà più restituire o reclamare niente. Le masserizie sono dichiarate res derelictae e res nullius, cioè senza proprietario e senza valore, oltre che pericolose in quanto ricettacolo di insetti e ratti. Vengono quindi accatastate nel Magazzino 26 alla meno peggio, senza che i blocchi appartenenti alle famiglie siano identificati perché non esistono più «legittimi proprietari».
Quando, alla fine degli anni Novanta, si ha la necessità di svuotare anche il Magazzino 26, per via dell'opera di riqualificazione del Porto Vecchio, ecco che viene concesso il «Magazzino 18», dove giacciono attualmente le masserizie, stavolta accorpate in maniera un po' più ordinata, almeno suddivise per tipologia: di qua gli armadi, di là i letti, da una parte gli specchi, dall'altra le cucine. Il senso di quella drammatica vicenda è tutto qui, tra questi duemila metri cubi di oggetti che raccontano lo sradicamento di una società, interrotta di colpo, e la quotidianità spazzata via.
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