Cultura e Spettacoli

La storia "segreta" della Nazionale. Cosa c'è dietro il trionfo di Wembley

"Un secolo azzurro", di Alfio Caruso, parla del profondo legame tra la storia italiana e la Nazionale. Un rapporto rinnovato dopo il trionfo di Wembley

Il lungo "secolo azzurro" della Nazionale

La nazionale italiana laureatasi campione d'Europa nella cornice di Wembley ha scatenato, in tutto il Paese, ondate di entusiasmo e felicità che hanno dato, nella notte tra l'11 e il 12 luglio, uno scampolo di ritorno alla normalità alla popolazione nella seconda estate del Covid-19. Il calcio si presta, in quanto fenomeno sociale di massa, a facili retoriche: appare immediato vedere nel trionfo degli uomini di Roberto Mancini un possibile manifesto della rinascita nazionale, caricare sulle spalle degli Azzurri aspettative collettive e immedesimarsi nell'idea che ogni giorno possa, per il Paese, concludersi con una notte magica. In fin dei conti, la forza del calcio sta nella sua semplicità: è solo un gioco, e proprio per questo riesce a diventare messaggio di comunicazione universale, democratico, penetrante. Terreno capace di livellare distanze fisiche, culturali, politiche, sociali. E nella storia italiana dal Novecento ad oggi questo è parso palese in diverse occasioni.

La maglia azzurra della nazionale è a tutti gli effetti una componente della storia contemporanea d'Italia. Dal primo pioneristico confronto della nazionale, un'amichevole con la Francia tenutasi il 15 maggio 1910 all'Arena Civica di Milano e vinta per 6-2, alla notte di Wembley, 111 anni di storia collettiva del Paese hanno visto il calcio acquisire una centralità non indifferente nella cultura popolare nazionale. Nel periodo del centenario della nazionale, il giornalista e scrittore Alfio Caruso ha ben reso l'atmosfera di complementarietà tra l'Italia contemporanea e l'undici calcistico con la bandiera tricolore nel suo libro Un secolo azzurro, che racconta le storie più importanti in cui tale centralità si è manifestata.

L'azzurro è quello della nazionale di Vittorio Pozzo bicampione del mondo nel 1934 e nel 1938, campione olimpica a Berlino nel 1936, capace di resistere con onore anche alla prova del confronto con l'Inghilterra nella celebre amichevole passata alla storia come la "battaglia di Highbury" del novembre 1934. Un azzurro che il regime fascista volle sfruttare come strumento di propaganda per celebrare sé stesso attraverso i trionfi di Giuseppe Meazza e compagni, certamente comprendendo in anticipo la potenziale pervasività del pallone nella società italiana. Non mancò però, e Caruso lo fa notare, la riproposizione di una costante, specie nel Mondiale francese del 1938, che sarebbe diventata abituale nella storia della nazionale: la capacità di vincere giocando uno contro tutti, in condizioni avverse per via di crisi interne o problematiche sistemiche. Fu così nel 1938, quando l'Italia vinse malgrado l'ostilità del pubblico francese; nel 1982, quando la nazionale viveva in una condizione di stato d'assedio dopo l'onda lunga del Totonero; nel 2006, quando la stampa internazionale colpì a più riprese l'Italia futura campione del Mondo accostandola al nascente scandalo di Calciopoli esploso a poche settimane dal Mondiale in Germania.

I Mondiali del 1934 e 1938 furono le vittorie sfruttate dalla propaganda di un regime sempre più pervasivo; quello del 1982, invece, regalò agli italiani un'estate da sogno e un nuovo vento di normalità dopo le terribili tensioni politiche, sociali, economiche degli Anni Settanta. Segnalando anche nella morale collettiva il passaggio dal decennio degli anni di piombo a quello della Milano da Bere, del nuovo ottimismo, del secondo miracolo economico. Il Mondiale del 2006, al contrario, sancì una delle ultime tappe della piena normalità prima del lungo decennio di crisi e incertezza nell'era della Grande Recessione e della tempesta sui debiti. In ogni caso, "campioni del mondo, ma italiani fino in fondo", per citare Caruso. Che rispedisce al mittente l'ipocrisia dell'indignazione a orologeria da cui spesso la nazionale è stata colpita per scandali e questioni simili: "credo che il primo scandalo sia stato con la prima partita di calcio, è come l’età dell’oro di cui parlano i siciliani: mai stata l’era dei leoni e dei gattopardi, sempre e solo iene e sciacalli".

Ma l'azzurro ha saputo essere anche il colore della speranza e della rinascita. La tragedia di Superga del 1949 privò l'Italia della leggendaria formazione del Grande Torino, dominatore incontrastato del campionato nel secondo dopoguerra e contributore per dieci undicesimi della selezione che avrebbe voluto affrontare da favorita il Mondiale brasiliano del 1950. Il granata del Torino e l'azzurro Italia, sovrapponendosi, furono assieme a Fausto Coppi e Gino Bartali i simboli sportivi di un'Italia capace di guardare oltre le miserie e la devastazione bellica.

L'azzurro, per oltre un secolo, è stato, ed è tuttora, quel colore capace di ridurre a unità i mille campanili d'Italia; di creare una passione collettiva che è una delle manifestazioni di quel particolare patriottismo delle piccole cose di cui l'italiano è, nella mancanza di una religione civile unitaria, facilmente capace; di permettere, nei momenti di trionfo dell'Italia, una sospensione temporanea dai pensieri e dalle ansie della nazione. Anche in tempi di Covid-19 il "secolo azzurro" di cui ha scritto Caruso è continuato. E permette il continuo rinnovo di una passione collettiva che, attraverso i nomi di campioni e il ricordo di formazioni leggendarie, costruisce anno dopo anno una sua epoca. Con la chiara consapevolezza del fatto che, in fin dei conti, si tratta solo di un gioco.

E per questo il calcio è da tutti comprensibile pienamente.

Un secolo azzurro

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